I capelli lunghi e la barba nella vita religiosa

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In questo originalissimo saggio l’autore affronta un tema assai poco trattato, cioè il valore antropologico, religioso e simbolico dell’uso di non radere (o radere) barba e capelli.

Il tema può naturalmente apparire secondario, stuzzicante solo per qualche curiosità da intellettuale, e dobbiamo senza dubbio ammettere non è essenziale ai fini della risposta alle grandi domande – chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Ma, si sa, nella vita non è importante solo l’essenziale: altrimenti non avrebbe senso gustare un buon piatto di cibo saporito, sarebbe sufficiente assumere in pastiglie insapori la quantità giusta di proteine, carboidrati etc. L’esperienza ci insegna invece che proprio ciò che appare più marginale e secondario talvolta ci guida in maniera insostituibile all’essenziale, ce lo rende amico e comprensibile; sub accidentibus latet substantia, avrebbe sentenziato un antico scolastico.

L’appassionata conclusione mostra tutta l’importanza dell’argomento: l’uso di portare barba e capelli lunghi per il cristiano altro non è, in ultima analisi, che un tentativo di imitazione di Cristo; certamente un’imitazione che, presa di per sé, si trattiene a livello esteriore; ma come l’autore stesso ci ricorda, forse il Cristo non ha preso un corpo di carne e peli? La sua presenza fra noi non si è manifestata in un corpo etereo, astratto, spiritualisticamente svuotato di ogni contenuto carnale; ma al contrario il suo corpo si presenta con tutta la pesantezza, i corollari e le appendici, desiderate o indesiderate che siano, dei nostri corpi mortali. Barba e capelli lunghi compresi, come ci attesta una costante e consolidata tradizione iconografica, che gli studi dimostrano risalire alla Sindone. E se il Logos divino ha preso carne, anche e soprattutto il suo concreto corpo, in ogni suo recesso e dettaglio, nasconde per noi salvifici segreti.

Mi pare che il tentativo dell’autore, attraverso le pagine del saggio, è comunicarci questa scoperta dell’essenziale attraverso un dettaglio apparentemente insignificante; e nell’ottica di questo inedito intento ci conduce, seppur concisamente e senza pretese di esaustività, in un viaggio attraverso diversi tempi e diverse culture religiose dal punto di vista della “storia pilifera”, come egli stesso la definisce. Analizzando le usanze in proposito delle grandi civiltà antiche, europee ed extraeuropee, delle loro grandi tradizione religiose, in particolare del mondo ebraico che è la radice più diretta del cristianesimo, scopriamo che il capello e il pelo in generale sono sempre considerati fonte di forza (un po’ come il corno dell’animale, che fa bella mostra di sé sugli elmi dei guerrieri e che la biologia scientifica scopre essere della stessa natura del capello) e strumento di collegamento con il cosmo e il divino, quasi fossero delle “antenne” in grado di veicolare le informazioni più sottili (si pensi, solo a titolo di esempio, che cos’è il baffo per un gatto…). Anche quando la tradizione è quella della rasatura, come la tonsura monastica nella tradizione del cristianesimo occidentale, l’offerta dei propri capelli alla divinità significa l’offerta della propria persona, la totale sottomissione dell’intelligenza e della volontà personali a Dio: è dunque un modo per riaffermare l’estremo valore che le proprie appendici pilifere rivestono nel contesto della sensibilità religiosa.

Naturalmente la parte più rilevante del saggio è dedicata a barba folta e capelli lunghi nella tradizione cristiana, e allora scopriamo che tale usanza non è esclusiva del monachesimo o del cristianesimo orientale, come a tutta prima un profano dell’argomento potrebbe pensare, avendo in mente le raffigurazioni delle icone divenute ormai patrimonio anche della nostra tradizione e le immagini di riti ortodossi viste in televisione o in qualche vacanza greca… fino a non molto tempo fa esisteva una precisa esigenza in tal senso anche nella tradizione religiosa latina, come ci attesta, una sola per tutte, l’opera del dottissimo cardinal Baronio, che con forza argomentativa si pronunciò a comunque a favore della baraba di fronte al santo vescovo di Milano Carlo Borromeo che voleva far radere tutti i suoi sacerdoti. O S. Pio da Pietrelcina, che fin da bambino si sentiva attratto dai frati “purché avessero la barba”. O l’esempio di innumerevoli monaci e religiosi santi che portavano la barba e desideravano che i religiosi degli istituti da loro fondati facessero altrettanto.

Ringraziamo quindi il Bormolini che ci restituisce in quest’opera un pezzo della nostra storia che era andato perduto, forse una piccola monetina ma comunque preziosa.

Lorenzo Spezia

Recensione di: Guidalberto Bormolini, La barba di Aronne. I capelli lunghi e la barba nella vita religiosa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2010