Racconto cinese.

preghiere

Gli altipiani tibetani

“Prima parte di un viaggio in Estremo Oriente alla ricerca di una guarigione. Narra dell’incontro con il remoto mondo dei tibetani del Sichuan, provincia cinese confinante a ovest con le montagne del Tibet”.

Nella stagione dei monsoni Chengdu è velata da un cielo basso che sembra calarsi sulle sue strade, sfumandone i contorni con grandi pennellate d’acqua.
Rimarrò solo due giorni prima di ripartire per le regioni montuose del Sichuan occidentale, e la città non farà in tempo a raggiungere densità maggiore di un sogno.
Universi suburbani senza nome sembrano replicarsi all’infinito, come un oggetto posto tra due specchi. Alloggio in un ostello su uno dei grandi anelli stradali che circoscrivono il fulcro della città, l’immensa piazza Tianfu, sul cui fondo sorge, dorata come il sole, una gigantesca statua di Mao. Il reticolato delle strade di Chengdu fa pensare a un dream-catcher nel cui centro è rimasto impigliato l’incubo peggiore.

Di questi pochi giorni, una sola immagine resta nitida nella memoria come un disegno di china su pergamena. I tre giovani cinesi, due ragazze e un ragazzo, comparsi poche ore dopo il mio arrivo, quando sono ferma a un incrocio enorme, le direzioni del cielo capovolte, la strada del ritorno perduta. Mi chiedono se ho bisogno di aiuto, e, prendendomi in mezzo a loro, mi riaccompagnano all’ostello con la naturalezza di un’onda che spinge a riva un ramo caduto. Sottili come giunchi, camminano lievi, come mossi dal vento. La particolare leggerezza e tranquillità che emanano i loro corpi, così più animati dei nostri, l’avvertirò molte volte ancora nei mesi seguenti, che mi porteranno a calarmi completamente nel tempo e nei ritmi della gente del Sichuan. I loro volti distesi sono come luce diffusa attorno all’oscurità degli occhi, nei quali non mi stanco mai di guardare.
Gli occhi di questo popolo s’incontrano solo dopo un certo tempo, quando, abbassando le difese, ammettiamo l’impenetrabilità e la lontananza delle menti che in essi si rispecchiano, accogliendo il senso di vulnerabilità che ci assale di fronte a tanta estraneità. Allora la superficie del contatto cede e si affonda, ed è come se si aprissero spazi nuovi anche dentro di noi, zone sconosciute, grandi lande dell’anima addormentate.
Offro un tè ai tre giovani, ma non accettano. “Tu ora sei al sicuro e il mio cuore è contento”, mi dice il ragazzo, “va bene così.” E sono già scomparsi, come rondini in un frusciare d’ali.

Piove a dirotto quando salgo sull’autobus che porta a Kangding, prima tappa verso gli altipiani tibetani del Sichuan. È una cittadina di passaggio, situata in una valle scavata da un fiume rabbioso, e attraversata da un traffico pesante che rimbomba sulle pareti di roccia delle montagne.
Il giorno seguente proseguo verso Nord in un furgoncino sgangherato gremito di tibetani. Attraversiamo un passo innevato alto 6000 metri e il silenzio immobile delle montagne ci avvolge inviolato come un ricordo d’infanzia.
Dall’altra parte giace la valle di Zhong Lu, isolata dal mondo e abitata da una minoranza etnica, i Qiang, che pare abbiano radici antichissime, antecedenti al Taoismo. Nella loro lingua si chiamano ‘Erma’, che significa ‘noi stessi’. C’è una sola pensione dove alloggiare, situata all’ingresso della valle, oltre il quale le macchine non circolano più. È un antico edificio tradizionale in pietra grezza, che si sviluppa attorno ad una corte erbosa, un lato aperto verso il verde ricco e frondoso dei monti. Incastonati nei muri, piccoli pannelli di legno dipinti ad arcobaleno incorniciano le finestre e lungo i tetti danzano file di bandiere colorate, coperte di mantra recitati dal vento.
La pace è assoluta. Passerò qui quattro giorni, aspettando che l’anima, smarrita a metà strada tra l’Italia e la Cina, raggiunga il corpo e renda reali le impressioni dei sensi, ancora soffuse di sogno.
Sul fondo della valle, lungo la lingua di terra pianeggiante, si stendono campi di grano setosi, filari di peschi e nespoli – i frutti fiammeggianti tra i rami come piccole lanterne – file d’insalata purpurea, grandi cavoli dalle venature perlacee, bietole verdi e vellutate, sazie di acqua, e piantagioni di pannocchie come piogge di sole. Le donne lavorano i campi a mano, zolla per zolla. Regine dalle schiene drittissime, con i capelli corvini adorni di fasce colorate e i fianchi cinti da lunghe gonne nere ricamate a mano, sono di un’eleganza che s’impone come un incantesimo. Nel portamento e nei gesti esprimono grande libertà d’animo e una gaiezza semplice e rotonda. Apprenderò più tardi che i Qiang seguono la linea materna: nome e proprietà sono tramandati di madre in figlio, e sono le donne a capo dell’agricoltura.
Tutta la comunità, vecchi e giovani, uomini e donne, si riuniscono per costruire le case delle loro famiglie. Li vedo spaccare la roccia per ricavarne pietre, trasportate poi in spalla giù per i pendii – anche da misteriose donnine anziane, curve sotto il peso, sorridenti, senza una goccia di sudore sulla fronte. Riuniti, mischiano la calce, decorano il legno, scavano le fondamenta, cantando per darsi il ritmo.
Le donne salutano ogni viaggiatore come fosse un caro amico lungamente atteso – ‘Tashi Delek!!’ gridano forte, e il loro sguardo è aperto come il mare.
Quando si riposano dal lavoro, snocciolano rosari di legno scuro cantando le loro preghiere o rimanendo in silenzio, sedute assieme all’ombra di un albero.
Nei primi giorni, quando incontro queste persone da vicino, mi pare di divenire ombra o fumo di fronte alla solidità, all’unità del loro essere. La mia esitante frammentarietà occidentale mi sembra una vergogna, un insulto alla bellezza, ma anche all’onore, di esistere.
Cammino su viottoli posati pietra per pietra, delimitati a lato da file di piccoli ciottoli tondi, chiari come lune. S’inerpicano su per i pendii, attraverso il fitto del bosco, verso le case più remote.
Cammino, cammino e piano sento come sono accolta nella trama delle loro menti di cui è intessuta l’aria della valle. È come se in fondo ai pensieri si sedimentasse piano un polverone che offuscava lo sguardo, permettendomi di vedere il mondo e di entrarvi in contatto con un senso di realtà del tutto nuovo. Mi chiedo dove sono, e cosa vedo, quando vivo fagocitata dalla nostra mente collettiva. In che luogo si svolge la mia esistenza? D’un tratto mi assale un potente senso d’irrealtà, e una dolorosa coscienza della distrazione che chiamiamo vita. Mi pare che queste persone siano colme le une delle altre, intessute in un organismo generosamente vivo, nutrite e sorrette da forze che sanno essere più grandi di loro. Si sono arrese alla propria piccolezza e alla propria dipendenza. Questo permette loro di attingere alle forze vitali della collettività e dell’universo, al contrario di noi che siamo in perenne opposizione all’una e all’altro, tentando di trovare tutte le forze dentro di noi, per poi dominare, controllare e sfruttare. Noi, cosa ci nutre?
L’esperienza della trascendenza sembra per loro connaturata all’esistenza – tutto li trascende e tutto è retto dall’intelligenza dell’armonia e della bellezza. Il loro canto che sale verso l’alto pare quasi inevitabile, nasce da una sovrabbondanza che sgorga dal profondo e spacca il tetto del mondo.

L’alba del secondo giorno è limpida. Il cielo si è aperto e i colori sono esplosi come grandi grida di gioia lungo la valle. I gigli e le rose selvatiche splendono come gemme nel bosco e il cielo turchino pare l’iride di un bimbo appena nato. Esco con l’intenzione di fare amicizia con gli animali che popolano la valle.
Mi viene in mente quella frase di Meister Eckhart, il mistico medievale: “Chi cerca Dio, vada dagli animali.” Non cerco Dio, ma dagli animali vado sempre (e trovo…).
Qui sono un popolo.
Nel fitto del bosco incontro un’incantevole famiglia di maiali rosa e neri con le orecchie penzoloni. Sono timidi, impazienti, emotivi, complicati…come i cani. Assomigliano ai cani anche nei movimenti, nel modo di trotterellare a coda alta e di sbuffare all’improvviso. I piccoli hanno ognuno il suo carattere, chi è prepotente, chi impacciato, chi furbo, chi tonto – ma tutti sono irresistibilmente curiosi e si protendono verso di me, i musetti frementi, gli occhi intimoriti.
Rivedrò questi maiali molto più avanti, sulla strada di ritorno a Chengdu. Sono stipati come materiale da imballaggio in un furgone che corre sull’autostrada sotto un sole feroce. Li osservo attraverso le grate della loro gabbia, stretti nella morsa del nostro potere assoluto.
Capita a volte di precipitare nel momento presente, e al contempo di osservarlo da una lontananza infinita. Si avverte allora in questo sguardo – e non si sa più se si è osservatori o osservati – un’infinita pazienza, generata da una resa profonda.
È questo lo sguardo che l’animale rivolge a noi.
Penso a questo proposito ad un passo di Doris Lessing, tratto dal libro ‘Le memorie di una sopravvissuta’. È un libro profetico e impietoso. Dice Doris Lessing: ’Io credo che in tutto questo tempo noi esseri umani siamo stati osservati da creature capaci di percepire e di comprendere a un livello talmente più alto rispetto a quanto, a causa della nostra vanità, siamo stati in grado di ammettere, che, se riuscissimo a comprenderlo, inorridiremmo, ne saremmo umiliati. Abbiamo vissuto con loro come grossolani, ciechi, incalliti, crudeli assassini e torturatori, e loro ci hanno osservato e conosciuto. Ed è questa la ragione per cui ci rifiutiamo di riconoscere l’intelligenza delle creature che ci circondano: lo shock al nostro amour-propre sarebbe troppo forte, il giudizio che dovremmo esprimere su noi stessi, troppo terribile. E’ esattamente lo stesso processo che porta una persona a continuare indefinitamente a commettere un crimine o una crudeltà, pur essendone cosciente: fermarsi e dover riconoscere ciò che è stato commesso, sarebbe troppo doloroso, non si riesce ad affrontarlo’.
Gli animali sanno, osservano, e, nonostante tutto, si arrendono a noi – e questa debolezza è, invero, divina, se di un dio vogliamo parlare.
Più avanti dice Doris Lessing: ‘Tutto il tempo, durante le nostre vite, siamo accompagnati, ovunque andiamo, da creature che ci giudicano, e che a volte si comportano con una nobiltà che è…noi la chiamiamo umana.’.
Per i viottoli di Zhong Lu incontro vitelli su lunghe gambe ossute, i fianchi esposti che si alzano piano sotto un respiro pieno di timori mentre gli occhi enormi interrogano i passanti, grandi buoi con pallide corna a mezzaluna, neri come il carbone – paiono immagini rinvenute in una caverna preistorica -, un gallo vestito di porpora e smeraldo, dalla curva del collo alla coda vellutata di un’eleganza tanto composta da invitare un inchino, un possente maiale sdraiato in una pozza di sole sull’uscio di una casa, gli occhi aperti e scuri come laghi tranquilli mentre ascolta il calore che gli penetra nella schiena – sono l’anima del villaggio. Nella loro molteplicità e diversità ritrovo respiro, nel loro silenzio, il mio, nella loro pace, il mio diritto di essere qui, con loro. Ascolto queste presenze che insegnano a sentire, a percepire il mondo, ad arrendersi; maestri dell’attenzione, insegnano il consenso e l’umiltà senza riserve. E so che essi sono dentro di me, e in loro compagnia mi sembra di trovare un equilibrio, l’equilibrio di un dialogo con il resto della creazione e dunque un’appartenenza, il mio luogo in questa trama, che è il luogo di una relazione. In questa relazione guarisco dal male dell’immensa solitudine antropocentrica, disorientata, sradicata, mutilante. Sono forze primordiali e archetipali, rispecchiano e richiamano qualità dell’anima sepolte e dimenticate. Sono messaggeri e maestri, sono compagni di viaggio, sono – sacri.
E sacre sono le terre che attraverso quando lascio la valle dei Qiang per giungere finalmente nelle ‘Praterie di Tagong’ sugli altipiani tibetani del Sichuan.
Ci inerpichiamo per parecchie ore verso Est, seguendo il corso di un torrente tra i boschi, con il solito furgoncino grigio e sghembo, che in queste regioni è l’unico mezzo collettivo disponibile. Il nostro ha sette posti, ma siamo in dieci, letteralmente uno sull’altro. Di fianco a me siedono due giovani monache tibetane vestite di porpora, timide come la primavera delle alture. Parlano piano tra loro in tibetano e i loro sguardi sprofondano uno nell’altro, senza argini o difese. Sono così remote. Di fianco a me è seduto Anthony, un allampanato eterno viaggiatore, incontrato a Chengdu. Una delle monache non riesce a trattenersi dallo sbirciare ripetutamente sotto il berretto dalla lunga visiera squadrata verso la sua mano molto inglese. La pelle pallida mette ancora più in risalto la peluria scura sul dorso. La monaca è paralizzata a metà tra l’orrore e l’ilarità (i tibetani non hanno assolutamente peli sul corpo) e scambia con la compagna parole soffocate dietro la mano. Poi guarda me e vede che le rivolgo un gran sorriso divertito: ho capito… Sul suo bel viso scuro dalle guance color rubino sale una vampata di fuoco e la ragazza, gemendo dall’imbarazzo, si butta il mantello sopra la testa nascondendosi nel grembo dell’amica. Si risolleva, ma ogni volta che s’incrociano i nostri sguardi, si copre la bocca e dondolandosi ride rivolta a lato, come una bambina scoperta con la mano nella marmellata. Quando il furgone si ferma ai margini di un bosco per una pausa, si dirige verso un gelsomino fiorito e mi regala un rametto bianco e odoroso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Saliamo, saliamo, le montagne si spogliano della loro vegetazione e sembra che il mondo si riduca all’osso. Voltiamo un ultimo tornante e di colpo ci troviamo immersi nelle onde verdi delle alture, i solchi scuri come lividi, i dossi soleggiati coperti di polvere d’oro, e come sogni in fuga corrono sui crinali le ombre delle nuvole. Sul fianco delle montagne splendono in pietra bianca immense scritte in tibetano. Sono mantra sacri che sembrano riecheggiare da un monte all’altro.
Gli sconfinati altipiani del Sichuan sono un unico grande canto del popolo tibetano al proprio cuore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il furgoncino ci porta solo fino a Bamei, un villaggio di poche case, collocato su un crocevia, da cui si diramano strade nelle quattro direzioni del cielo. Dapprima mi sembra di essere capitata sul set di un film di John Wayne – solo che gli attori hanno invertito i ruoli: i cowboy sono interpretati dai pellerossa (ai quali questi tibetani assomigliano in maniera sconcertante) e i bianchi…ma di bianchi non ce ne sono proprio. Li devono aver fatti fuori tutti, a parte due dall’aria tanto innocua che hanno deciso di tenerli come guardiani degli Yak…Insomma: Strade sterrate e polverose fiancheggiate da case di legno con le porte che sbattono, uomini vestiti con giubbotti di pelle, cappelli da cowboy (e occhiali da sole), che camminano con le gambe a ‘o‘ – anche se al posto dei cavalli ora ci sono moto sgangherate e rappezzate tanto da sembrar vive pure loro…
Come in un sogno, mi allontano dal gruppo di furgoncini fermi in attesa di passeggeri per comprare una manciata d’arance e un po’ di pane. I miei passi non fanno rumore sulla strada in terra battuta. La luce delle alture è abbacinante e sotto il trambusto tipico di un crocevia mi accorgo della presenza di un silenzio profondo, come di una grande mano che tutto racchiude. D’un tratto mi viene da lanciare un grido di guerra e mettermi a correre per quest’unica stradina appoggiata nell’immensità delle alture come una pagliuzza nell’oceano.
Quando scendiamo nella piazza di Tagong ci accoglie il vento, un vento che viene da lontano. Ha attraversato le gole delle montagne dai ghiacci perenni che sorgono come guardiani all’orizzonte, è sceso lungo le pianure raccogliendo il profumo dell’erba selvatica, ha smosso il torrente fino a farlo scalpitare come un puledro, si è tuffato e rituffato sulle moltitudini di bandiere piantate sui colli ondulati sollevando in cielo le voci del suo popolo, ed è giunto infine ad alzare la polvere nella nostra piccola piazza, arruffando le pellicce dei mastini e turbando il cuore dei viaggiatori con l’eco di mondi troppo vasti…

M’infilo in un vicolo tra due basse costruzioni di legno a fianco della piazza e mi rifugio da Dalya e Drogpa.
La pensione di oggi era un tempo casa loro, ampliata, dopo che i cinque figli se ne andarono, per poter accogliere i viaggiatori. Appena sposati, la costruirono loro stessi in stile tradizionale, secondo i dettami della sposa. Sullo sfondo ocra, azzurro e rosso delle pareti si affollano immagini di fiori e uccelli, e la stoffa delle trapunte è ricamata come un giardino – un canto di colori che pare pensato per scongiurare il freddo nelle stanze completamente prive di riscaldamento. Siamo a quasi 4000 metri ed è la stagione delle piogge. In casa si gela ed è umido, ma nella sala comune c’è una piastra rovente sempre accesa su cui si può far bollire l’acqua per il tè. Lungo le pareti sono disposte a L due enormi cassepanche di legno ricoperte con tappeti di lana e montagne di cuscini, e su un lungo, basso tavolo ci sono sempre barattoli di tè verde profumato per scaldare gli ospiti.
Drogpa, il marito di Dalya, veglia come un nume su di noi. Parla il mandarino lentamente, come una lingua imparata a scuola, e così riusciamo a parlare un po’. Ama molto gli stranieri (che sono poi tutti israeliani), perché sono gentili e mostrano grande entusiasmo per il rifugio che ha creato per loro. Parlando dei cinesi, il suo viso si rabbuia. “Mi comandano come uno schiavo”, dice, “e si lamentano di tutto. Io sto bene con voi!” Resta spesso seduto ad osservarci con un’espressione di genuino affetto. Se intuisce che qualcuno ha freddo, gli posa delicatamente una coperta sulle spalle.

Intermezzo israeliano
Durante tutto il pomeriggio piovoso, singolarmente o a gruppi di due o tre, arrivano giovani israeliani come se si fossero dati appuntamento. La sera siamo una ventina, seduti attorno al basso tavolo di legno scuro, ciascuno con una bevanda fumante tra le mani. Sono tutti in viaggio da molti mesi, sono arrivati dalla Mongolia, dal Nepal, dall’India. Hanno appena più di vent’anni, e hanno da poco terminato il servizio militare. Chi è riuscito a mettere da parte un po’ di soldi durante il servizio, chi si è fermato per guadagnare il suo gruzzolo dopo, e con questo in tasca si sono sparpagliati per il globo, il più lontano possibile… Sono carichi di un’energia elettrizzante, gli occhi paiono più aperti del normale, di una vitalità incandescente. Si sono appena incontrati, ma sanno che se uno di loro dovesse trovarsi in difficoltà, gli altri gli darebbero tutto: tutta l’attenzione, tutti i soldi e anche le proprie scarpe, se necessario. Ci scambiamo racconti di viaggio, indirizzi, raccomandazioni, cibo, sigarette. Le relazioni raggiungono subito un’intensità che carica l’aria come in un concerto rock, l’intreccio emotivo è fitto come quello di un ritrovo di famiglia, la discussione è accesa, prorompente come una diga che ha ceduto all’improvviso.
Sono persone che non hanno tregua. Discutono senza sosta di qualunque argomento: di politica, di religione, di fisica quantistica, di libri (che si scambiano come pietre preziose), del militare, di filosofia – mi ricordo una discussione interminabile sulla natura della felicità… E tutto con l’emotività urgente di una questione di vita o di morte. E sempre tornano lì, sul punto dolente, ancora, e ancora, e ancora…il conflitto con gli arabi. Parlano della situazione senza uscita in cui si trovano (secondo un sondaggio recente più della metà degli israeliani è convinta che tra cinquant’anni Israele non esisterà più) con l’esasperazione controllata di condannati a morte. È come se deglutissero ad ogni parola un carbone ardente, senza il permesso di mostrare l’ombra di un dolore. Girano e rigirano domande e riposte all’infinito, fatti storici, riconciliazioni fallite, scene del militare, comportamenti degli arabi tra di loro, che li sconcertano, che non comprendono, e – ed è questo che il resto del mondo non vede – si disperano anche per loro, per gli arabi.
Non so se continuare.
Forse sono acque troppo profonde per un ‘intermezzo’.
Qualcuno lancia l’idea di un gioco di società e tutti aderiscono con entusiasmo. Si tratta di scrivere su foglietti di carta i nomi di personaggi conosciuti: figure letterarie, politici, attori, personaggi di film, campioni sportivi, scienziati, cantanti. I foglietti ripiegati sono raccolti in una cesta, ci si divide in due gruppi e, alternativamente, ogni gruppo ha trenta secondi per indovinare dalla descrizione – piena di restrizioni – di uno dei suoi, di quale personaggio si tratta. Se non ce la fa, la cesta passa all’altro gruppo. Giocano per ore con una concentrazione assoluta, con un gran senso del comico e con una velocità intellettuale sconcertante. Resto a osservarli. La bellezza della loro terra si riflette nei volti. I popoli del deserto serbano in fondo agli occhi una luminosità simile all’oro fuso – a costoro è bastato tornare a camminare sotto i cieli del Medio Oriente, perché si riaccendesse l’antica favilla anche negli occhi azzurri degli Ashkenaziti. I loro corpi sono tesi, ogni fibra è viva come in corpi abituati a lungo a ignorare i propri limiti. Sono persone che non tollerano scuse, pigrizia, finzioni di sorta. Sono dei sopravvissuti, con le leggi del trauma iscritte nel DNA.
Mi accolgono tra loro senza riserve, con un calore tenero e protettivo. Perché sentono che li amo? Che vengo da fuori, ma non condanno?
Fuori l’oscurità è fittissima e il vento bussa alle finestre. Domani si risparpaglieranno tutti ai quattro venti. Nessuno di noi si sentirà solo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il mattino nasce con lo splendore della folgore, e il cielo è chiaro come un diamante. M’incammino con due amici in cerca di un monastero femminile nascosto tra le colline.
L’altipiano è punteggiato di mandrie di Yak e frastagliato da inspiegabili tratti di filo spinato, tagliato o forzato a terra in molti punti. Verremo a sapere che i cinesi tentano invano di inculcare ai tibetani l’idea della proprietà privata e dello sfruttamento del bestiame.
I tibetani lasciano vagare gli Yak in completa libertà e ne consumano la carne solo se muoiono di morte naturale o per un incidente o per malattia. Essendo originariamente nomadi, non hanno il concetto della proprietà terriera. Infatti, nelle loro praterie si aprono a forza i passaggi di sempre, lungo i quali, a cavallo o in moto, conducono le mandrie verso nuovi pascoli. Per quanto li riguarda il filo spinato non è altro che uno stupido impedimento. Mi racconta una donna americana che ha sposato un tibetano e che vive qui da molti anni, che a un certo punto il governo cinese aveva deciso di aprire un allevamento intensivo con adiacente mattatoio in stile industriale. La sera prima dell’apertura i tibetani lo ridussero in un mucchio di ceneri.
Ci sono molti modi di essere carnivori…
Camminiamo a lungo su pascoli che si estendono all’infinito, chiazzati di fiori lilla e bianchi. Allungando una mano, potremmo quasi accarezzare gli Yak che vi abitano. Hanno un pelo lungo, nerissimo o bianco avorio e delle corna pallide e sottili, piegate quasi a gomito, proprio come i bufali americani, che ricordano anche nelle spalle possenti. Hanno la lentezza di animali abituati a grandi distanze, a orizzonti che fuggono, a cieli mutevoli, immensi. Il loro respiro è profondo, quieto, abituato alla sensazione dell’aria carica di profumi e mossa dai venti. I loro piccoli riccioluti incedono titubanti tra i ciuffi d’erba, attaccati alle loro madri con occhi grandi e tranquilli come la notte. Sono percorsi da onde imperiose che li sollevano su gambe incerte, e li spingono a immergersi in un mondo così pieno di richiami da confonderli. Restano immobili ad assorbire la miriade di stimoli con cui la pianura invade i loro sensi, le narici dilatate, il vello che capta il vento, il sole, la rugiada, gli occhi vaghi, troppo colmi di ombre e di colori, il respiro come lunghe sorsate d’acqua in cui la vita sembra dilatarsi sempre più, troppo… e corrono a rifugiarsi presso la madre, affondando il muso in quel mare di calore dall’odore che li avvolge come un canto rassicurante. Si appoggiano al suo ventre che al loro improvviso tremore oppone la potenza tranquilla di un corpo che ha tenuto testa al gelo selvaggio degli inverni, alla trazione dei venti, alla vastità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Davvero, ottima materia prima per l’industria. Ma sì, immobilizziamoli in celle lunghe e larghe esattamente quanto loro e riempiamoli di ormoni, giorno e notte sotto la luce al neon. Loro si spaccano i denti contro il ferro delle gabbie, hanno il respiro roco dall’ansia infernale, sbattono la testa contro il muro, chiamano – ma non vuol dire nulla. Poi, li mettiamo su un bel tapis roulant dal quale possono osservare come i compagni di fronte a loro vengono sgozzati o ricevono un bell’elettro shock. Lasciamoli urlare (urlano, urlano come dei matti) e godiamoci lo spezzatino. Solo dei fanatici adolescenziali potrebbero porsi certe domande! Una persona civile, equilibrata, matura, con il senso della realtà e della giusta proporzione ha francamente altro a cui pensare: e dunque – crepino!

Quando arrivano le tempeste nella mia vita, penso agli Yak delle praterie di Tagong. Ne rievoco la forza, la resa, la bellezza che hanno raccolto nella profondità in cui esistono e che permette loro di sopravvivere l’aggressione degli inesorabili inverni delle alture.

Camminando, passiamo gruppi di bandiere dalle mille preghiere, ritte come armate in mezzo al nulla, guadiamo un torrente, ci inerpichiamo su per i pendii, ma il tempio non lo troviamo. D’un tratto, voltandoci indietro scorgiamo un lago di colore all’orizzonte. È un arcobaleno basso che sembra sorgere come l’alba di un pianeta silenzioso. Fulgidi muri turchini, dorati, tinti di vino si ammassano lontano, ai margini del mondo, come se una porta si fosse improvvisamente aperta sull’aldilà. D’un tratto comprendo che i tibetani vivono su questa soglia, lanciati altrove, oltre i confini del mondo. E per loro tutto è tempio.

Sono alieni, sono profondamente diversi da qualsiasi popolo io abbia finora incontrato – più lontani dei cinesi, più enigmatici dei giapponesi. Sembrano partecipi di una realtà dalla quale siamo completamente e definitivamente esclusi.
Ricordano molto gli indiani dell’America settentrionale, l’ossatura del viso pronunciata, la pelle tesa su zigomi alti, chiazzati di porpora, i capelli corvini dai riflessi bluastri, come serbassero l’oscurità della notte. Spesso mi pare di trovarmi in presenza di creature mitologiche, indomite.
Impressiona la loro evidente forza fisica, specie nelle donne, che paiono divinità del femminile, forti, regali, imperscrutabili. Tuttavia, anche quando ridono, in fondo agli occhi delle donne si scorge l’ombra della tristezza, e i loro volti hanno quella rigidità dei tratti che parla di dolore sopportato in silenzio.
Sono un popolo crudelmente oppresso, e si vede. Sono turbati, anche i bimbi hanno spesso il volto infelice, al contrario dei bambini cinesi. Pare che ci sia un grave problema di violenza domestica contro le donne. Sradica un popolo, opprimilo, umilialo – e si rivolterà contro le sue donne.

Una mattina di sole prendo il mio zaino e parto per Ganzi, che si trova a nord –ovest, sempre più vicino al confine col Tibet. Ho fortuna, perché molto spesso questa regione è chiusa agli stranieri, essendo zona di dissidenti tibetani e luogo di ripetute sommosse contro il governo cinese.
Il viaggio è al di là di ogni descrizione. Mi hanno detto che un autobus vero e proprio collega Tagong con Ganzi. Aspetto a lungo nella piazza ventosa di fronte al tempio del villaggio e finalmente, con rombi e ululati, arriva.  Salgo pensando che forse, nonostante la condizione delle strade sia devastante, l’autobus rappresenterà un miglioramento rispetto ai furgoncini. Supposizione errata. È molto molleggiato, cosa che può sembrare vantaggiosa, ma rende al contrario il passaggio sulle strade sterrate, scavate e bucherellate dalle piogge come da un bombardamento, simile a una sosta al luna park. Mi devo tenere stretta a una maniglia posta – previdentemente – a lato del sedile per non essere lanciata per aria ogni due per tre. Rimbalziamo, prendiamo il volo, atterriamo con tonfi spaventosi, su e giù ininterrottamente per più di nove ore. A un certo punto perdo conoscenza e mollo per un attimo la presa. Mi sveglia un gran botto. È la mia testa che è andata a sbattere contro il soffitto in una delle planate dell’autobus che mi scaraventano fuori dal sedile…i miei dolci compagni di viaggio indigeni continueranno per mezz’ora a battere con le nocche contro soffitto, imitando il suono della mia testa, dandosi gomitate a vicenda e ridendo a crepapelle. Ma loro, si può sapere perché non volano anche loro?? Dannata solidità tibetana!
Quando raccolgo il mio mucchietto di ossa e scendo dall’autobus sono un po’ incerta sulle gambe. È quasi sera e devo cercare un posto per dormire. A furia di domandare, vengo accompagnata in una pensione cinese, che chiaramente non è autorizzata a ospitare stranieri, ma che costa pochissimo ed è ai margini del villaggio, immersa nel silenzio. Deo gratias. Svengo vestita nel letto.

Quando il governo in esilio del Tibet si riferisce al Tibet, intende l’area che comprende le province tradizionali di Amdo, Kham e Ü-Tsang, e che copre gran parte dell’attuale Sichuan. Di fatto, la parte occidentale del Sichuan è sempre stata abitata da Tibetani, Yi e Qiang, anche se dal diciottesimo secolo in poi il territorio è stato annesso alla Cina. Tradizionalmente però, le regioni di confine erano lasciate a se stesse e godevano di relativa libertà. Questa situazione finì quando la nascente Repubblica Popolare Cinese invase il Tibet nel 1950. Nonostante ciò, l’area del Sichuan popolata dai tibetani rimase relativamente tranquilla, fino a quando il governo non decise di sottoporla alle sue politiche di assimilazione culturale. Hanno tentato la strategia della modernizzazione. Da trent’anni versano denaro in aree popolate da minoranze etniche per sviluppare le loro economie e favorirne il ‘progresso’. Questo a seguito della teoria, ben conosciuta in occidente, secondo cui il benessere economico placa gli animi e indebolisce l’identità culturale e la fede religiosa. Attraverso la modernizzazione il governo tenta di erodere la loro lingua, la loro spiritualità, i valori su cui è fondata la loro vita. Di fatto, i tibetani potrebbero vivere bene, con più comodità e più ricchezza che in passato– a costo della loro identità. Il risultato dell’operazione è stato l’esatto opposto: una ribellione sempre più disperata.
Nel Sichuan sta avvenendo quello che il Dalai Lama chiama un ‘genocidio culturale’.
Interi settori della cultura e della comunità sono presi arbitrariamente di mira, ostracizzati e attaccati dallo stato, senza che notizia ne giunga al pubblico.
Nell’ultimo decennio si sono ripetutamente verificati episodi di protesta agghiaccianti, in cui individui – spesso monaci e monache – si sono dati fuoco in pubblico.
La reazione del governo a questi atti estremi è stata terribile: centinaia di monaci deportati nessuno sa dove, controllo militare delle zone, interruzione della comunicazione con il resto del mondo e l’imposizione di ‘periodi di rieducazione patriottica’ per i monaci, alla fine dei quali sono costretti a denunciare il Dalai Lama.
Woeser, una scrittrice tibetana che vive a Pechino, afferma che a Ganzi sono state incarcerate persone solo per aver gridato uno slogan. “In queste circostanze”, dice “puoi solo scegliere la strada dell’auto-immolazione per esprimere le tue intenzioni”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Soggiornando nelle praterie di Tagong, non capivo in cosa consistesse la repressione. L’avvertivo, ma non era manifesta all’occhio dell’estraneo. Vedevo villaggi abitati quasi solo da tibetani, osservavo la gente recarsi ai templi, lavorare nel commercio, nella ristorazione. Seppi in seguito che i tibetani, anche laddove un’area sembra tranquilla, sono sottoposti a controlli e pressioni costanti e ostacolati economicamente e per via legislativa nel tentativo di mantenere viva la loro cultura e il loro modo di vivere.
A Ganzi la repressione è invece molto evidente. La cittadina è infestata di polizia.
È squartata a metà da una strada di grande transito fiancheggiata da anonime case di nuova costruzione, annerite dal traffico. Trema sotto il peso di camion giganteschi che trasportano per la maggior parte legno e ferro. Non ci sono regole stradali e l’unico modo di farsi dare la precedenza è di strombazzare con dei clacson che sembrano granate, e come esplosioni ti riducono a brandelli dallo spavento. Il frastuono è incessante, ma per fortuna è limitato a quest’unica strada. Non so come facciano i commercianti, concentrati quasi tutti qui, a mantenere salda la ragione. Ma nel nome del progresso, si accoglie con gioia qualunque cambiamento!
A ogni angolo è appostata una macchina della polizia. Gli agenti restano immobili a fissare il trambusto con volti di pietra e piccoli occhietti vitrei. Esalano violenza e insensatezza a ogni respiro. A intervalli regolari partono con le loro macchine per vagare nelle strade, urlando chissà cosa dagli altoparlanti. I tibetani non reagiscono nemmeno con uno sguardo. Continuano con le loro occupazioni muovendosi come a rallentatore. Paiono come compressi dallo sforzo emotivo di questa indifferenza.
Mi allontano in preda alla rabbia e al disgusto. Gli altipiani del Sichuan non sono il luogo migliore dove fare conoscenza con i cinesi.
D’un tratto mi ritrovo nella parte vecchia del villaggio. Le costruzioni sono basse, con muri di argilla o di pietra. Le porte e le finestre affondano in molteplici cornici intarsiate, sfumate delicatamente o dai colori forti come suoni di tromba. Lungo i muri e attorno ai tetti corrono dipinti di scene mitologiche, draghi, fiori, simboli sacri e paesaggi in miniatura e sui balconi si ammassano vasi di piante fiorite. I vicoli sono immersi nel silenzio. Alzando lo sguardo scorgo in cima al monte che domina la pianura l’immenso tempio dei lama che si staglia contro un cielo bianco di luce. Seguendo il mormorio dei mantra giungo a un tempietto nel cuore del quartiere. Come in tutti i templi della regione, lungo il suo perimetro corre una passatoia coperta, in cui si trova una fila ininterrotta di cilindri d’oro. Recitando o cantando i mantra, si cammina all’infinito attorno al tempio, spingendo i cilindri che girano su se stessi, captando riflessi di luce come scintille. Sembra che tutto il mondo tibetano tenga incessantemente vivo il movimento ascendente della sua preghiera che dai quattro angoli della loro terra sale in infinite spirali verso il cielo. Come non si fermano mai le bandiere nel vento sparse sui colli, così qui, a ogni ora del giorno – e forse della notte – c’è il popolo delle alture che cammina attorno al suo tempio, dando un colpo ai cilindri e mormorando le parole che lo mantengono in vita.
Qui – ma forse è a causa dell’ora – incontro per la maggior parte anziani. Molte donne. Sono seduta sui gradini di fronte al piccolo tempio e loro mi guardano con volti sereni e pieni di luce. Il cenno di saluto dei tibetani è una mano tesa con il palmo rivolto in alto. Non so se sia davvero il significato del gesto, ma pare dicano: ”Ecco, ti offro il cuore sul palmo della mia mano.”
La pace che vedo nei volti degli anziani è assente nei giovani. Sembrano essere avvolti nella loro anima come in un bozzolo. Intimamente, abissalmente connessi a una presenza interiore che pare innervare i loro corpi consumati, donando loro una dignità intoccabile. Gli anziani circondano di passi e di canti ogni tempio delle grandi pianure – anche ora, stanno camminando, sempre. Sembrano camminare per tutti noi attraverso una terra scura e desolata, i vestiti appiattiti contro il corpo da un inesorabile vento contrario e rabbioso. Hanno in mano una piccola fiammella e tutta la loro attenzione è rivolta a proteggerne la luce fioca. Camminano, insensibili a tutto, fuorché al tesoro nascosto tra le loro mani.
Se togli loro questa fiamma, sono pronti a darsi fuoco: giovani, donne, monaci.

Cristina Campo desiderava che i suoi scritti fossero letti come “una professione d’incredulità nell’onnipotenza del visibile”- nei tibetani queste parole si sono fatte carne.

C’è anche chi, semplicemente, vuole scappare. Come il giovane monaco del tempio dei lama in cima al monte. Lo incontrai nell’impressionante biblioteca, immerso nello studio dell’inglese.
Mi offrì tè e palle di farina d’orzo e burro di Yak nella sua piccola cella dal pavimento di terra battuta. D’un tratto mi afferrò le mani e mi disse: ”Aiutami a scappare, ti prego. Non puoi immaginare cosa significa vivere qui…”
Mi guarda con occhi straordinariamente grandi e tondi – ha un volto quasi occidentale. Mi comunica il suo senso di soffocamento e angoscia, dato dalla coscienza che qualcuno gli sta rubando la vita. Ma io non riesco a comprendere la natura della sua richiesta. Ci scambiamo all’infinito un piccolo dizionario elettronico, ma l’incontro, iniziato con molta simpatia, rimane spezzato come un brano di musica lasciato a metà.
Il sole è già basso quando esco dalla cella del giovane. Vedo i monaci che si dirigono verso il tempio vestiti con grandi cappelli gialli da cerimonia. Nella luce della sera le loro tuniche di porpora sembrano trattenere l’ultimo sole, mentre sulla pianura si allungano le ombre dei monti innevati.
Scendo verso il villaggio, nell’anima l’angoscia del monaco.

Nei giorni seguenti mi sposterò ancora, attraverso valli rigogliose, lungo potenti corsi d’acqua e passi silenziosi. Aspetterò in mezzo al nulla di fronte a strade franate, in compagnia di monaci, commercianti, nomadi, mamme e bambini. Vedrò altre pianure allagate di luce, intarsiate di muri bianchi, lungo i quali camminano donne e uomini stringendo nella mano un bastone con il piccolo, roteante cilindro dorato.
Vedrò un cane semi paralizzato sotto il sole che non riesce più a rialzarsi e una donna che con un bastone lo solleva, affinché raggiunga l’ombra.
E vorrei continuare all’infinito, sempre più su, sempre più a ovest, verso il confine proibito ai viaggiatori solitari.
Tuttavia, devo ridiscendere nel bacino rovente del Sichuan, dove abita il popolo dei cinesi Han, più numeroso delle stelle del cielo, e dove nella moltitudine dei volti spero di riconoscere quello del mio maestro del respiro.

Fulan