“L’uomo è un essere pieno d’immaginazione”,
Gaston Bachelard
Se l’interesse di Gaston Bachelard per il fenomeno immaginativo prende le mosse da una sua iniziale svalutazione nella convinzione che solo lo strumento psicoanalitico avrebbe potuto studiare i fantasmi che turbano lo spirito scientifico, in un secondo tempo finisce con il riconoscere nell’immaginazione la manifestazione più autentica, elevata ed evoluta della creatività umana.
Lo scienziato non solo pensa in maniera logica e indirizzata, ma sogna e divaga, fantastica liberamente e al di fuori dagli angusti confini che l’oggettività scientifica impone:
“chiuso a sera il laboratorio, […] torna a casa e si siede davanti al fuoco, e li, la testa appoggiata alle mani, i gomiti puntati sulle ginocchia, nell’ ‘observation hypnotisée‘ della fiamma, ritrova le antichissime valorizzazioni. […] incomincia, – ricomincia – a sognare; la sua coscienza, non è più controllata dalla ragione, scivola a recuperare le rêverie primitive della fiamma. Da sotto lo scienziato riemerge l’alchimista” (1) .
Occuparsi allora dell’immaginazione vuol dire mettere a fuoco un fenomeno
“al limite fra sogno e pensiero oggettivo, nella confusa regione dove il sogno si nutre di forme e colori reali, e dove, per converso, la realtà estetica trae la sua atmosfera onirica” (2).
Questo non significa negare la componente fantasmatica ed inconscia delle fantasie pre-scientifiche, ma piuttosto metterla fra parentesi dopo averla riconosciuta, con un atteggiamento autenticamente fenomenologico, con un gesto metodologico “perfettamente controllato e guidato dalla volontà di razionalità” (3) che riconosca e circoscriva le intuitions premières, le rêverie per poterle conoscere nella loro manifestazione fenomenica. Lo studio della rêverie come “fantasticheria sognante” ci permette, con Gaston Bachelard, di calarci alle origini del fenomeno immaginativo per coglierlo in tutta la sua natura emergente ed “aurorale”, come alba di una coscienza che conosce il mondo nella sua primigenia apertura, in quanto come osserva ancora Sertoli:
“nella rêverie, la coscienza batte ad una intensità impercettibile, vuoi perché essa ancora indugia prima di sprofondare nel sogno (il rêve, l’inconscio), vuoi perché ne è appena emersa. La rêverie è dunque uno stato estremamente fragile, evanescente, instabile; e tuttavia essa è l’origine del mondo e dell’uomo, ossia è la dimensione originaria dell’essere dell’uomo di fronte al mondo e dell’apparire del mondo all’uomo” (4).
È importante precisare che tale stato fantasticante e originariamente percettivo di cui parla Bachelard non è identificabile in toto con il sogno diurno o sogno ad occhi aperti così come è concepito all’interno della teoria freudiana. Per Freud il sogno ad occhi aperti è considerato sia come quello stato regressivo e crepuscolare tipico degli stati ipnoidi che presiede al formarsi della patologia, sia come un’attività fantastica generale che si sviluppa a partire dal gioco infantile per poi concretizzarsi, ad uno stato più evoluto di sublimazione, nella produzione artistica e nell’attività intellettuale. Potremmo affermare che la sua funzione non è creativa, ma piuttosto adattativa, anche laddove si esprime come produzione artistica o forma di pensiero.
Concepita come prosecuzione dell’attività ludica, la fantasia ad occhi aperti è un tentativo di istituire un territorio protetto dove tutto può proliferare come vuole e come gli piace senza compromettere l’adesione al principio di realtà. Anche per Bachelard la rêverie può essere connotata sia da una inclinazione regressiva che da una vocazione che potremmo definire più costruttiva, progressiva ed evolutiva. Oltre che indicare
“lo stato che precede il sorgere chiaro e distinto della coscienza, essa sarà anche lo stato cui la coscienza inclina tutte le volte che perde chiarezza e distinzione. E questo è appunto quanto capita allo scienziato che allenta per un attimo la propria «sorveglianza» […]” (5).
Una cosa infatti è il sorgere della coscienza, altra è il suo tramontare. Riteniamo di parlare di due momenti fenomenologicamente distinti. Uno progressivo, l’altro regressivo. Uno che procede verso la luce, l’altro che si adombra nella tenebra. Come afferma Bachelard
“all’apparire del giorno, non ci è dato trovare che qualche frammento della nostra vita notturna. […]. Sicché ogni sogno risulta un’anatomia composta di parti morte. Va perduta […] la possibilità di studiare tutte le funzioni della filosofia del riposo. Ciò che resta sono trasformazioni oniriche di cui non conserviamo che varie tappe. […] è appunto la trasformazione stessa che fa dello spazio onirico il luogo dei movimenti immaginati” (6).
Se nella rêverie la coscienza esperisce la sua nascita e quella del mondo, l’accesso al “mondo supero”, nel sogno vive la sua morte sperimentando l’accesso al “mondo infero”:
“forse comprenderemo meglio questi movimenti segreti, con le loro maree e ondate se potessimo definire e distinguere le due grandi maree che, di volta in volta, ci trascinano verso il cuore della notte e indi ci restituiscono alla chiarezza e all’attività del giorno” (7).
In questo senso, per Bachelard, “la rêverie è un fenomeno spirituale troppo naturale – troppo utile all’equilibrio psichico – perché venga trattata come una derivazione del sogno, perché la si classifichi, senza discussioni, nella serie dei fenomeni onirici” (8) . Questo perché, mentre “il sognatore notturno non può enunciare un cogito”, in quanto il sogno della notte è un sogno senza sognatore, “al contrario il sognatore di rêverie mantiene abbastanza coscienza per dire: sono Io che sogno, sono Io che sono felice di sognare la mia rêverie” (9). La rêverie è l’alba di un cogito, uno stato psichico in cui “il sognatore conosce il cogito nascente” (10), “varco che mette in comunicazione il mondo notturno con il modo diurno, la tenue fascia in cui i due mondi sfumano l’uno nell’altro […] l’alba della coscienza e del contatto con la realtà” (11), il momento stesso in cui la coscienza stessa, riconoscendo la realtà, si costituisce; “la dimensione più autentica dell’esercizio concreto dell’immaginazione” (12).
In un bellissimo articolo del 1952, intitolato L’espace onirique (13) , Bachelard descrive con estrema chiarezza e prezioso rigore fenomenologico, lo “spazio” della rêverie, mettendolo in relazione al rêve notturno. Egli si chiede: “in quale spazio vivono i nostri sogni? Qual è la dinamica della nostra vita notturna?” (14).
Nel rispondere a queste domande, ci offre una descrizione dello spazio onirico come fenomeno unitario e continuo, distinguendo due grandi maree che, di volta in volta, ci trascinano verso il cuore della notte e indi ci restituiscono alla chiarezza e all’attività del giorno . Questi due movimenti, nei quali abbiamo voluto vedere un movimento regressivo e un movimento progressivo della coscienza, vengono rappresentati come anche come “gli andirivieni di uno spazio che incessantemente si ritrae e di nuovo si espande” (15) , sottolineando come le caratteristica fondante di questi due movimenti sia l’accentramento e il decentramento.
Vediamo ora di seguire Bachelard nella prima delle due direzioni, quella regressiva del “sonno accentratore” (16) , cioè del sogno, che anche per Freud “costituisce evidentemente la vita della psiche durante il sonno” (17):
“Non appena prendiamo sonno, lo spazio si attenua, dilegua […], smarrisce le forze che lo strutturavano, perde le sue coerenze geometriche. Lo spazio in cui passiamo le nostre ore notturne non conosce orizzonti: esso è l’imminente sintesi delle cose e di noi stessi. Se sogniamo un oggetto vi entriamo come in una conchiglia. Il nostro spazio onirico è sempre dotato di un coefficiente centrale. […]. Permaniamo al centro stesso della nostra esperienza onirica. Se un astro brilla è il dormiente che si tramuta in stella. Un minuscolo lampo sulla retina assopita disegna una costellazione effimera, evoca il confuso ricordo di una notte stellata. Il nostro spazio addormentato non tarda a divenire la nostra retina autonoma, dove una microscopica chimica genera mondi. Così lo spazio onirico ha per sfondo un velo di Maia gettato non già sul mondo ma su di noi dalla notte benigna, velo di Maia che, per l’appunto, non è più grande di una palpebra abbassata. E quale densità di paradossi quando immaginiamo che questa palpebra, questo velo limite, appartiene tanto alla notte quanto a noi stessi! È come se il dormiente partecipasse a una volontà di occultamento, alla volontà notturna” (18).
Sempre seguendo Bachelard nella sua esplorazione fenomenologica che si avvale di un ricco linguaggio poetico, per la ricchezza delle immagini che riesce ad evocare, nel sonno
“per dormire bene è necessario assecondare la volontà di ripiegamento, di crisalide, seguire tale volontà sino al centro nella dolcezza delle sue spirali, nel suo movimento avviluppante […]” (19) .
Il movimento accentratore e regressivo della rêverie notturna, quella che procede verso il sonno e che incontra il sogno, è caratterizzato da uno spazio “che si ripiega e ravvolge su se stesso […] nel proprio centro” (20) , ed è questo “lo spazio che di norma racchiude i sogni della sicurezza e del riposo” (21) , le cui immagini e simboli, andranno “interpretati in funzione della loro progressiva centralizzazione” (22) . Se infatti
“gli occhi non partecipano a tale universale volontà di sonno, se essi rammentano la chiarità solare […] significa che lo spazio onirico non ha conquistato il suo centro. Esso conserva troppi orizzonti, è uno spazio spezzato e turbolento, lo spazio dell’insonnia” (23) .
Lontano dall’essere considerato, come nella psicoanalisi freudiana un fenomeno finalizzato alla protezione del sonno e all’appagamento del desiderio oppure un movimento di ripiegamento nella situazione intrauterina (24) , il sogno costituisce l’esperienza stessa di tale ripiegamento come una sorta di avvitamento della coscienza su sé stessa che accetta di partecipare e aderire ad una volontà “altra”, partecipare in senso mistico ad uno sfondo che ci precede e ha fecondato la coscienza stessa, luogo della primordiale incoscienza. Come ci ricorda Jung
“col sogno noi penetriamo nell’uomo più profondo, universale, vero ed eterno, ancora immerso in quella oscurità della notte primitiva in cui egli era il tutto e tutto era in lui, nella natura priva di ogni differenziazione e di ogni «essere Io». Da una tale profondità, collegante il tutto, nasce il sogno, per quanto infantile, grottesco e anormale che esso sia” (25).
Questo movimento che costituisce il primo volto della clessidra dell’anima, quello notturno, che nell’alternanza circadiana si oppone alla veglia, anche se regressivo, porta ristoro ed è fecondo come ci ricorda Jung: “la discesa nelle profondità porta salute. È la via verso l’intero essere, verso il tesoro che l’umanità dolorante continua ricerca” (26).
Una tale coscienza in grado di aderire alla notte e di partecipare a questa discesa nel mondo infero, come la chiamerebbe Hillman, accede alla notte più profonda, alle sorgenti dell’essere. Per Bachelard lo psicoanalista invece, si rivolge solamente a delle semi-notti, a
“delle notti meno fonde in cui il nostro essere […] ha ancora i suoi drammi umani […]. Ma già sotto questa vita inabissata, si apre un abisso del non-essere in cui si inabissano certi sogni notturni. In tali sogni assoluti, siamo restituiti a uno stato pre-soggettivo. Diventiamo inafferrabili a noi stessi, perché diamo pezzi di noi stessi a chiunque, a qualunque cosa. Il sogno notturno disperde il nostro essere su dei fantasmi d’essere eterocliti che non sono nemmeno le ombre di noi stessi. […]. Lo psicoanalista non lavora a queste profondità. Crede di poter spiegare le lacune, senza prestare attenzione al fatto che questi buchi neri che interrompono la linea dei sogni raccontati, sono forse, il segno dell’istinto di morte che lavora nel fondo delle nostre tenebre. A volte, solo un poeta, ci può ridare l’immagine di questo lontano soggiorno, un’eco del dramma ontologico di un sonno senza memoria, quando il nostro essere fu, forse, tentato dal non-essere” (27).
Come abbiamo già ripetuto ampiamente il sogno freudiano non può che essere un sogno interpretato, un lavoro secondario e una rappresentazione compatibile con il mondo diurno della veglia. Bachelard è invece interessato ai
“sogni assoluti [che] ci immergono dell’universo del Nulla. […] sogni di soggiorno. […] per un sogno che raccontiamo al nostro ritorno alla luce del giorno, di quanti ne abbiamo perso il filo!” (28).
Occupiamoci ora dell’altro lato della clessidra, del secondo movimento che muove dal sonno e procede verso la veglia, il “riflusso che ci restituisce all’aurora” (29).
Bachelard osserva che
“l’essere si ridesta con ipocrisia, mantiene gli occhi ancora chiusi, le palme delle mani indolenti. Ma il centro ha già forze nuove. Da plastico che era l’essere si fa plasmatore. In luogo d’uno spazio arrotondato, ecco uno spazio che si orienta su direzioni prescelte, direzioni volute, assi di aggressività […]. Lo spazio onirico, prossimo al risveglio, contiene cumuli di sottili esigenze […]. Ed ecco le immagini assumere ora un diverso significato. Sono già delle fantasie della volontà. Lo spazio si colma di oggetti che provocano anziché invitare. […] si apre da tutte le parti; esso va sorpreso ora in queste aperture, e cioè nella possibilità pura di tutte le forme increate. Di fatto lo spazio onirico dell’alba è investito da una improvvisa luce intima. Avendo compiuto il suo dovere col dormire un buon sonno, ecco l’essere assumere uno sguardo che improvvisamente si compiace della linea retta […]. All’immaginazione concentrata tien dietro una volontà di irradiamento” (30).
Nella Poetica della rêverie, già in avanzata polemica con il pensiero psicoanalitico, Bachelard si domanda “se la rêverie è, in ogni circostanza, un fenomeno di distensione e di abbandono come suggerisce la psicoanalisi classica” (31), osservando che gli psicologi “studiano dapprima il rêve, il sorprendente rêve notturno, e prestano poca attenzione alle rêverie che per loro sono sogni confusi, senza struttura, senza storia, senza enigmi. La rêverie diventa così un po’ di materia notturna dimenticata nella limpidezza del giorno” (32).
Concepita in questo modo la rêverie
“si trasforma e precipita nel rêve, le vampate di rêverie notate dagli psichiatri, asfissano lo psichismo, la rêverie diventa sonnolenza […]. Una specie di destino di caduta caratterizza così una continuità dalla rêverie al sogno. Meschina di rêverie quella che invita alla siesta” (33).
Esistono dunque rêverie “che non appartengono a questo stato crepuscolare in cui si fondono vita diurna e vita notturna” (34) anche se risulta “difficile delimitare la frontiera che separa i campi della psiche della notte e della psiche del giorno, ma questa frontiera esiste” (35).
Per Bachelard
“la differenza tra sogno e rêverie […] dipende dalla fenomenologia: se il sognatore notturno è un’ombra che ha perso il suo Io, il sognatore di rêverie […] può, al centro del suo io sognatore, formulare un cogito. In altre parole, la rêverie è un’attività onirica nella quale sussiste un bagliore di coscienza. Il sognatore di rêverie è presente alla sua rêverie” (36).
Leggendo pagine significative della Psicoanalisi del fuoco abbiamo evidenziato come il sogno cammini linearmente là dove la rêverie procede invece a stella, ritornando al centro per “gettare nuovi raggi”. La natura della rêverie sta nella sua forza decentrante, nel suo orientarsi su “direzioni prescelte” ossia “direzioni volute” a differenza del sogno la cui fenomenologia è da ricercare nella centralizzazione e nel ripiegamento regressivo. Nella rêverie il mondo viene “investito da un’improvvisa luce intima” e in questo modo il mondo diventa il nostro mondo, in quanto
“l’atto di nascita della coscienza è, immediatamente, l’atto di nascita del mondo, o meglio, di un mondo, poiché ogni coscienza nasce individuata, e dunque individua il suo mondo. Il cogitatumdel cogito rêveur è il mondo come panorama, cioè il suo apparire, la sua immagine. E dire «panorama» significa che il mondo non si presenta alla coscienza come una serie distinta di oggetti, bensì come una totalità cosmica” (37).
Il sogno della notte invece non ci appartiene,
“è nei nostri riguardi un rapitore, il più sconcertante dei rapitori: rapisce il nostro essere […]. Al limite, i sogni assoluti, ci immergono nell’universo del nulla. […]. I sogni notturni, sogni della notte profonda, non possono essere delle esperienze su cui si formula un cogito. Il soggetto vi perde il suo essere, sono dei sogni senza soggetto” (38).
Non è possibile associare al sogno una coscienza; la nostra estraneità ai sogni può essere tale “che un altro soggetto sembra sognare in noi” (39) . Da questo punto di vista per Bachelard è impossibile tracciare con chiarezza una fenomenologia della “fantasia passiva” o sogno notturno. Qualsiasi epistemologia che voglia spiegare e interpretare il sogni sarebbe animata da una sostanziale ingenuità.
La rêverie è l’unico momento onirico che una fenomenologia può studiare in quanto “il materiale viene prodotto in uno stato di veglia della coscienza” (40) .
Anche Jung, come abbiamo già evidenziato, aveva ben compreso la natura del fenomeno immaginativo: “Preferisco l’espressione «immaginazione» a quella di «fantasia», perché fra le due vi è quella differenza che i vecchi medici avevano davanti agli occhi quando dicevano che «opus nostrum», l’opera nostra, deve realizzarsi «per veram imaginationem et non phantastica» – attraverso un’immaginazione autentica e non illusoria. In altri termini: secondo questa definizione la fantasia è pura irrealtà, un fantasma, una fugace impressione: l’immaginazione invece è creazione attiva e finalizzata a uno scopo” (41)
Nel sogno, sognatore e mondo sono indissolubilmente legati, lo spazio in cui passiamo le nostre ore notturne è sintesi delle cose e di noi stessi. Se sogniamo un oggetto vi entriamo come in una conchiglia. Come dice Bachelard “se un astro brilla è il dormiente che si tramuta in stella”.
Nel sogno è il mondo a sognare. Solo nella rêverie chi sogna è veramente un sognatore.
Gianluca Minella, in “Fantasia, sogno e immaginazione nella psicologia analitica” (Milano, Roma; 1993-2014).
Note:
- SERTOLI G., Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, La nuova Italia Editrice, Firenze, 1972, p. 122.
- BACHELARD G., Le droit de rêver (1970); trad. it., Il diritto di sognare, Dedalo, Bari, 1987, p. 118.
- SERTOLI G., Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, p. 123.
- ibidem, p. 119.
- ibidem, p. 221.
- BACHELARD G., Il diritto di sognare, p. 169.
- ibidem.
- BACHELARD G., La poetica della rêverie, p. 18.
- ibidem, p. 29.
- ibidem, p. 165.
- SERTOLI G., Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, p. 118.
- ibidem, p. 52.
- Articolo presente nella raccolta: BACHELARD G., Il diritto di sognare, p. 169. 780
- ibidem.
- ibidem, p. 170.
- ibidem, p. 172.
- FREUD S., Introduzione alla psicoanalisi, p. 81.
- BACHELARD G., Il diritto di sognare, pp. 171-172.
- ibidem.
- ibidem.
- ibidem, p. 172.
- ibidem.
- ibidem.
- “ci ritiriamo […] nello spazio prenatale, ossia nell’esistenza endouterina. O almeno, ci creiamo le condizioni del tutto simili a quelle di allora: calore, oscurità e assenza di stimoli. Alcuni di noi si raggomitolano ancora strettamente in sé stessi e assumono per dormire una posizione corporea simile a quella assunta nel grembo materno. Sembra quasi che il mondo non ci possegga interamente, anche noi adulti, ma solo per due terzi; per un terzo non siamo ancora nati”, FREUD S., Introduzione alla psicoanalisi, p. 82.
- JUNG C. G., Psicologia analitica ed educazione, op. cit.
- JUNG C. G., Psicologia Analitica. Le conferenze alla Clinica Tavistock, pp. 16-17.
- BACHELARD G., La poetica della rêverie, pp. 157-158.
- ibidem.
- ibidem.
- ibidem, pp. 172-173.
- ibidem, p. 17.
- ibidem.
- ibidem.
- ibidem.
- ibidem, p. 160.
- ibidem, pp. 162-163.
- SERTOLI G., Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard, p. 328-329.
- BACHELARD G., La poetica della rêverie, pp. 157-159.
- ibidem, p. 18.
- JUNG C. G., Psicologia Analitica. Le conferenze alla Clinica Tavistock, p. 161.
- ibidem, p. 160.