Alice Miller, psicoanalista che piano piano si è distaccata dalle posizioni della psicoanalisi tradizionale impostando un proprio modo di concepire e praticare la psicoterapia, scrive questo libro, che diventerà un classico, nel 1979.
Non possiamo cambiare una sola virgola del nostro passato, ne cancellare i danni che ci furono inflitti nell’infanzia; possiamo tuttavia “cambiare noi stessi”, “riparare i guasti” e recuperare così “la nostra integrità perduta”.
Un percorso di psicoterapia può aiutarci a scoprire la storia unica e irripetibile della nostra infanzia. La maggior parte delle persone, tuttavia, non vogliono sapere nulla del loro passato e in questo modo ne rimangono continuamente influenzati reiterando i loro copioni abituali.
La rimozione dei maltrattamenti e dei traumi subiti nell’infanzia indurrà a distruggere la vita propria e degli altri.
Per l’autrice “il dramma del bambino dotato” (quello che è l’orgoglio dei suoi genitori) ha origine nella sua capacità di cogliere i bisogni inconsci dei genitori e di adattarvisi, mettendo a tacere i suoi sentimenti più spontanei (rabbia, indignazione, paura, invidia) che risultano inaccettabili ai “grandi”. In tal modo viene soffocato lo sviluppo della personalità più autentica e il bambino soffrirà di insicurezza affettiva e di una sorta di impoverimento psichico. Da adulto, secondo l’autrice, questo bimbo sarà depresso oppure si nasconderà dietro ad una facciata di grandiosità maniacale.
Gli innumerevoli esempi che l’autrice riporta documentano la sofferenza inespressa di questi bambini e. al tempo stesso, le grandi difficoltà dei genitori, incapaci di essere veramente disponibili verso i figli.
Secondo la Miller nella lotta contro i disagi psichici abbiamo solo un mezzo a disposizione: scoprire a livello emotivo la verità della storia unica e irripetibile della nostra infanzia.
Non possiamo cambiare il passato ma possiamo cambiare noi stessi acquisendo la consapevolezza del nostro percorso.
Molti dei mali del mondo sono così da attribuirsi ai danni subiti nell’infanzia dai singoli individui, così come molte dipendenze e abusi servono per combattere la “noia” e la “quiete” che può far percepire di nuovo quel “vuoto”, quella “solitudine” dell’infanzia.
È così che siamo diventati, per esempio, psicoterapeuti, affinando la nostra intuizione e le nostre antenne, per cercare di capire che cosa ci stava capitando intorno, e così sopravvivere.
Molte persone che entrano in analisi presentano disturbi e soffrono per gravi depressioni eppure la loro infanzia è stata felice e protetta da genitori incoraggianti. Orgoglio dei genitori, capaci di raggiungere ogni obiettivo, costoro sono inclini ai sensi di colpa ogni volta che sentono di aver tradito l’immagine ideale di se stessi. Si tratta spesso di persone incapaci di sentire i propri reali bisogni, capaci di costruirsi l’illusione della buona infanzia. Il clima psichico dell’infanzia di questi soggetti può essere ricondotto alle carenze di considerazione e dei sentimenti e delle proprie sensazioni fin dalla più tenera età, una carenza narcisistica che li porterà poi per tutta la vita a cercare ciò che i loro genitori hanno fatto loro mancare, cioè qualcuno che li ammiri e li apprezzi.
Ciò è tanto più vero se si pensa che nella storia di questi pazienti si riscontra spesso una madre o entrambi i genitori insicuri sul piano emotivo che presentava al bambino un’immagine di durezza autoritaria necessaria per il proprio equilibrio narcisistico: a tale bisogno rispondeva il bambino con una sorprendente capacità di adattamento tale da garantire a lui stesso l’idea che si aveva bisogno di lui e di conseguenza l’assicurazione di esistere.
La fenomenologia di quello che una volta era chiamato in psicoanalisi disturbo narcisistico secondo la Miller è da ricercarsi nell’adattamento del bambino all’impossibilità di vivere in modo cosciente i sentimenti di gelosia, invidia, ira, abbandono, impotenza, paura eppure spesso si tratta di persone sensibili e dotate che però non hanno avuto modo di esperire questi sentimenti per paura di ferire la madre, renderla insicura, comprometterne il potere o minacciarne l’equilibrio. Un bambino può vivere tali sentimenti solo se c’è un adulto che lo accetta, lo comprende e lo asseconda altrimenti tenderà a non viverli affatto mettendo in atto nella sua vita da adulto inconsciamente situazioni in cui far rivivere i sentimenti che all’epoca erano appena abbozzati ma senza che sia comprensibile il contesto originario.
I meccanismi di difesa in questo senso offrono esempi di strategie che il paziente mette in atto per proteggersi dal sentimento di abbandono provato durante la prima infanzia (la negazione, la trasformazione della sofferenza passiva in comportamento attivo, lo spostamento su altri oggetti, l’introiezione, l’intellettualizzazione cui si accompagna sempre la rimozione della situazione originaria e dei sentimenti ad essa connessi che emergeranno solo dopo anni di analisi).
Winnicott definisce “falso sé” l’adattamento ai bisogni parentali (l’individuo non si limita a mostrare ciò che gli viene richiesto ma si fonde con esso): i genitori hanno trovato nel “falso sé” del bambino la desiderata conferma, un sostituto delle loro strutture mancanti e il bambino, che non ha potuto crearsi strutture proprie dipende prima consciamente e poi inconsciamente dai genitori. Non riesce così a separarsi dai genitori e nell’età adulta continua ad essere dipendente dalla conferma del partner, e, soprattutto, dei propri figli.
Il bambino sarà amato dalla madre a condizione che mantenga il “falso sé”, ciò non produrrà guasti nelle facoltà intellettuali ma nella vita affettiva.
Secondo la Miller uno dei cardini del lavoro psicoanalitico è che i pazienti con disturbi narcisistici arrivino ad una comprensione emotiva del fatto che tutto l’amore che si erano conquistati con tanta fatica non riguardava affatto l’individuo che essi erano in realtà ma solo il prodotto che erano in grado di dare e non il bambino in sé. Il divenire consapevoli che la propria infanzia è stata utilizzata dagli adulti e non ci è stato permesso di viverla con spontaneità fa emergere la sofferenza e il lutto dal quale però possono emergere le fantasie di grandezza che devono essere comprese per ciò che realmente sono cioè una forma alienata di quei bisogni autentici e legittimi che sono stati calpestati nell’infanzia.
Solo in questa dimensione sarà possibile superare la scissione e realizzare l’integrazione. La Miller si sofferma sul metodo utilizzato a questo scopo: attirare l’attenzione del paziente sul suo modo di trattare i propri sentimenti, fargli notare che egli tende a minimizzarli, che non riesce a percepirli, che li valuta in relazione a come li vivranno gli altri.
Una volta conseguito l’obiettivo di prendere sul serio i propri sentimenti il paziente comincia a sperimentare che può provare sentimenti senza che accadano fatti irreparabili e l’analista offre il territorio di prova e di confronto.
Quanto più i sentimenti primitivi vengono ammessi e vissuti e tanto più il paziente si sente forte e capace di vivere anche le ambivalenze della prima infanzia. Si vivono qui i sentimenti primari di impotenza, di rabbia, abbandono nei confronti dell’oggetto amato: il vero sé – scrive Winnicott – è nello stadio della non comunicazione perché non c’è nulla che un paziente debba proteggere di più quanto il vero sé.
Ma non dobbiamo dimenticare che tutto questo non si presenta in forma cosciente: il bambino non sa cosa nasconde pertanto il vero sé non può comunicare in quanto è rimasto ad uno stadio inconscio e non evoluto, in una sorta di prigione interiore. Il termine dell’analisi con il momento della seperazione permette all’individuo di esporsi liberamente ai sentimenti senza dover continuamente ricorrere alla figura traslativa dell’analista.
Nel volume della Miller, che è stato oggetto di una profonda revisione e riscrittura rispetto all’edizione precedente, si coglie il passaggio storico da una psicoanalisi ortodossa ad una psicoterapia analiticamente orientata. Tutto il paragrafo sottolinea che anche lo psicoterapeuta deve fare i conti con il bambino che è stato e forse proprio in quell’infanzia si è costruito il percorso che poi lo ha condotto, da adulto, a scegliere questa professione. La tutela di sé e quella del paziente rispetto alle manipolazioni subite nell’infanzia dovrebbe aver avuto come percorso un’analisi personale nella quale elaborare i lutti dell’infanzia: quanto meglio ci orientiamo nella nostra storia personale, tanto meglio possiamo smascherare le manipolazioni, che, a causa di problemi infantili irrisolti, possono essere messe in atto anche dagli stessi terapeuti.
Fiumi di parole sono state spese per testimoniare l’importanza del legame madre-figlio e soprattutto di quei primi attimi che consentono con il rapporto di pelle tra i due di iniziazre il percorso evolutivo: chi la fortuna di crescere con una madre capace di rispecchiarlo e che si renda disponibile, cioè si metta a disposizione della crescita sana del figlio, potrà vedere gradualmente sorgere in sé una sana autostima.
Una madre non riesce ad aiutare suo figlio a crescere quando per soddisfare i propri bisogni personali si serve del bambino e questi svilupperà quegli atteggiamenti di cui la madre ha bisogno assicurandosi così l’amore materno.
La Miller fa riferimento alla sua esperienza e parla del fatto che molti pazienti che soffrono di depressione hanno avuto madri depresse che consideravano il bambino una loro proprietà (in sostanza cerca una spiegazione negli atteggiamenti educativi di ciò che, secondo i più, fa parte dell’ereditarietà).
Il senso di vuoto, la mancanza di senso nella vita, la paura della solitudine, la depressione per la Miller sono l’espressione per la perdita di sé che prende avvio nell’infanzia.
Le due forme possibili sono “la grandiosità”, cioè la difesa conto il dolore per la perdita di noi stessi e “la depressione” che è l’altra faccia della stessa medaglia.
La depressione a volte compare come segno del crollo della grandiosità e come si è detto grandiosità e depressione sono due facce della stessa medaglia . Può succedere che qualcuno con prestazioni eccellenti riesca a mantenere l’illusione di una dedizione dei genitori ma tali individui scelgono spesso un partner con tratti depressivi al fine di mantenere la propria grandiosità e si tende a proteggere il povero partner ottenendo un puntello per la propria personalità. In ogni caso alla base della depressione e della grandiosità troviamo un falso sé, una fragile autostima, il perfezionismo, la negazione di sentimenti disprezzanti, relazioni di sfruttamento, la paura di perdere l’amore e di conseguenza l’adattamento, moti aggressivi scissi, vulnerabilità alle offese, predisposizione ai sensi di colpa, irrequietezza.
La depressione è dunque un segnale della perdita del Sé che consiste nel negare le proprie reazioni emotive e le proprie sensazioni. Rimanda alle ferite dell’infanzia: non possiamo amare realmente se ci è proibito di scorgere la nostra verità non solo riferita ai nostri genitori ed educatori ma anche a noi stessi. Possiamo agire solo come “se provassimo amore” ma ciò è l’esatto contrario dell’amore. I danni dell’ipocrisia sono evidenti anche nelle fedi religiose.
Il bisogno infantile dell’amore assoluto ha bisogno del pianto per poter essere superato: l’idea “magica” di un amore incondizionato e unico non esiste e deve metterci in guardia.
Il mito di Narciso presenta il dramma della perdita di sé, del cosidetto disturbo narcisistico. Narciso, innamorato del suo viso, si specchia nell’acqua e la ninfa Eco risponde ai richiami del giovane di cui è innamorata. I richiami di Eco ingannano Narciso, così come lo inganna la sua immagine riflessa, in cui vede solo la parte splendida di sé, altre parti gli restano oscure (la schiena, la sua ombra, ecc.) .
Questo stadio dell’entusiasmo è paragonabile alla grandiosità, così come quello successivo, la struggente brama di sé, è paragonabile alla depressione.
Narciso rinnega ogni altra parte di sé e vuole congiungersi con quella parte di sé che vede cioè il viso, rinunciando ad esprimere completamente se stesso: non sono solo i sentimenti buoni e belli a farci sentire vivi ma spesso sono quelli scomodi (impotenza, rabbia, confusione, gelosia, invidia, vergogna).
L’entusiasmo per un falso sé impedisce non solo l’amore per l’altro ma anche per se stesso.
La Miller conclude il suo scritto riassumendo le radici della violenza in dodici punti. È chiaro che i traumi subiti nell’infanzia si ripercuotono sull’intera società come ormai da anni è stato scientificamente provato:
1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.
2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul sedo, gli vogliano bene e lo aiuùno onestamente a orientarsi nella vita.
3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, cintato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tal modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.
4) La normale reazione a tali lesioni della propria integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che gli è stato fatto.
5) I sentimenti di ira, impotenza, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolti contro gli altri (criminalità e stermini) o contro sé stessi (tossicomanie, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).
6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancor sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ”educazione”. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.
7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ”deviante” non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene ofserta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla pane del bambino e di dargli la loro fiducia.
8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica1 poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.
9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.
10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena le esperienze traumatiche subite nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.
11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.
12) Gli individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da pane dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a sé stessi, né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno ci rispettare e proteggere i più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà).
Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non starà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.
Alice Miller, Il dramma del bambino dotato e la ricerca del vero sé. Riscrittura e continuazione, Boringhieri, 2008.