Lo psichiatra e scrittore Eugenio Borgna dedica il suo saggio dal titolo “Le emozioni ferite” a quelle emozioni che sono “anche portatrici di conoscenza: di una conoscenza che ci trascina nel cuore di esperienze di vita irraggiungibili dalla conoscenza razionale”.
Ma, professore, perché le “emozioni” di cui lei parla sono «ferite»?
«Perché – spiega Borgna – le emozioni più profonde e luminose dell’uomo oggi rischiano di essere travolte dalla fretta e dal “cinismo”. Fanno “perdere tempo”, non sono produttive, interrompono quella macchina micidiale per cui bisogna “realizzare”, senza fermarsi a riflettere. Emozioni “ferite” sono spesso quelle dei più giovani, bruciate dal “cinismo” che colpisce chi voglia uscire dagli argini della “razionalità” tacitamente imposti dagli adulti».
Occorre dare voce alle “emozioni interiori”. Lei scrive che le “parole” tuttavia possono essere «soglie pietrificate» oppure «scialuppe» che salvano. Quando e quali “parole” sono strumento di “salvezza”?
«Ci sono parole che affollano le nostre giornate, ma esprimono unicamente le nostre individuali istanze, e diventano solo cascate di “rumore”. Le parole “creative” invece sono quelle che nascono in noi dall’urgenza di dire ciò che siamo, dentro a una relazione: e dunque parole tese all’altro. Parola che salva è solo quella che tende all’altro. Solo questo accento divide le parole “terrificate” da quelle che liberano. Poi, per fondare una relazione autentica, la relazione deve essere il più possibile “simmetrica”. La “asimmetria” fra il dolore e la gioia in chi parla e in chi ascolta va resa meno aspra nel “compatire”, nel condividere la sofferenza».
Lei parla, nel libro, di “silenzio”. Anche il “silenzio” può essere un “dialogo”?
«Esistono tanti tipi di “silenzio”. E c’è un silenzio “interiore” da cui nascono parole che di questo silenzio portano il sigillo, inteso come timbro di immediata intuizione, di “contemplazione” dell’essenziale. Nel silenzio “contemplativo” è possibile cogliere ciò che è essenziale dire a chi ci ascolta».
Come maestra di “silenzio” lei cita Etty Hillesum, la giovane “ebrea” morta ad Auschwitz, che ha lasciato le sue intense «Lettere» e il «Diario». La Hillesum che scriveva, mentre il “nazismo” attorno a lei dilagava: “In me c’è un silenzio sempre più profondo. Lo lambiscono parole che stancano, perché non riescono a esprimere nulla”
«Sono stato folgorato da Etty Hillesum. Ciò che ci ha lasciato rimanda a quell’infinito che possiamo cogliere solo se sfuggiamo alla “ghigliottina” della fredda analisi “razionale”, a quell’infinito che possiamo vivere solo se non lo riduciamo a qualcosa di “calcolabile” in senso “positivistico”. È l’infinito “leopardiano”, che fa cogliere un’altra immagine della realtà: come se le ragioni del cuore aprissero orizzonti più ampi di quelli della ragione “calcolante”».
La Hillesum scrive di un «pozzo molto profondo» che avverte in sé, a cui attingere, ma che spesso è «coperto da sabbia e sassi». L’”infinito” abita in noi?
«”In interiore homine habitat veritas“, dice Agostino. Dentro ciascuno di noi esistono fonti inesauribili di amore e “solidarietà”. Fontane “sorgenti”, coperte però dai detriti dell’abitudine, della fretta, della incapacità della preghiera. Perché la preghiera in cosa consiste se non in parole riempite di silenzio, che ci immettono in un dialogo “infinito”, in sterminati orizzonti? Il “pozzo” è in noi, colmo di acqua freschissima; ma è contaminato dalla paura di guardare dentro di noi».
E come si fa, a ritrovare questo “pozzo”?
«Se crediamo in certi orizzonti di “senso”, con fatica possiamo cercare di adeguarci alle nostre perdite, alle nostre sconfitte, in una prospettiva se si vuole anche “mistica”: che allarga istantaneamente i confini della nostra capacità di partecipare il “senso” del vivere e del morire. Occorre dunque ascoltare fino in fondo noi stessi, anche nel dolore e nella sconfitta. E ascoltare le parole della “grazia” – poiché tutto è “grazia” infine, come scriveva Bernanos».
Etty Hillesum nel “lager” trova comunque, prodigiosamente, la “gioia”. Semplicemente in «uno spicchio di cielo». Che cos’è questa “gioia”, professore – vorremmo dire quasi, «che roba» è?
«La “gioia” di Etty Hillesum è la “speranza incarnata”. La speranza, in sé, è qualcosa che ancora non c’è, pur già illuminando il futuro. La gioia di cui parliamo invece è speranza già in atto, che prescinde dalle tre dimensioni “agostiniane” del tempo, passato, presente, futuro. La gioia vive in un presente che Agostino chiama “eternizzato”. Mentre la felicità ha bisogno di presente e di futuro, la gioia nel suo presente “eternizzato” cancella anche le impronte della morte».
Don Giussani parlò in un suo libro di «istante consistente»…
«Appunto: pur essendo il presente inafferrabile, l’istante “consistente”, il presente della gioia diventa la somma misteriosa, ma aperta all’infinito, di ciò che siamo. Quando mesi fa all’”Isola di San Giulio” ho assistito al “sì” di una giovane “Benedettina”, cui il Vescovo chiedeva se era pronta a lasciare tutto, ho colto nei suoi occhi abissi di “grazia” e di “mistero”, in una gioia e una apertura all’infinito che le parole non bastano a descrivere».
La “gioia” come “speranza incarnata”. Ma, professore, la “speranza incarnata” per i “cristiani” è Gesù Cristo…
«È come se in particolari occasioni, per “grazia”, potesse essere dato a un essere umano la percezione di questa “speranza incarnata”. La “grazia” della “gioia piena”: per cui Etty Hillesum in partenza per Auschwitz vede infine “squarciarsi” le tenebre e la morte».
Intervista, Avvenire, 30 settembre 2009
Eugenio Borgna, Le emozioni ferite, Feltrinelli, Milano, 2009.