Thomas D’ansembourg non è uno psicologo, è stato avvocato e consulente giuridico. Da diversi anni si occupa della gestione dei conflitti giovanili. È stato allievo del dott. Marshal Rosemberg, il padre fondatore della “Comunicazione Non Violenta”.
Questo testo, che in Francia è diventato un best sellers, nasce proprio dall’incontro con Rosemberg : con il suo insegnamento mi ha fatto rivivere, proprio mentre stavo per diventare una ‘nice dead person‘ !
Con la sua chiarezza, la sua coerenza e la sua integrità, questo processo di comprensione di sé e dell’altro ha contribuito a cambiare fondamentalmente la mia vita professionale e affettiva”.
Frase provocatoria, un po’ ruvida, perché a sentirla risuonare dentro sembra di percepire la voce della mamma o del papà che dice: “Smettila!” ed è anche provocatoria perché un genitore direbbe più facilmente: “Smettila di frignare, di provare rabbia, di fare il cattivo”, raramente o mai abbiamo sentito dire dai nostri genitori “Smettila di essere bravo, buono o gentile!”.
La provocazione deriva dal fatto che l’autore parla di gentilezza, riferendosi alla compiacenza, cioè ad una gentilezza di facciata, di maschera. Questa frase è acuta anche perché è come un dardo scoccato con lo stesso linguaggio che abbiamo ricevuto da bambini, che è quello del potere più che dell’amore incondizionato, visti i presupposti culturali con i quali siamo stati cresciuti.
Il percorso verso l’autenticità è lungo e spesso difficile, ma “Se noi portiamo una maschera e l’altro porta una maschera la nostra non è una relazione, è un ballo in maschera”.
Questo titolo provocatorio è allora un invito a diventare persone autentiche, ad eprimere la propria verità nel rispetto degli altri. Per fare questo bisogna però “snidare molti condizionamenti inconsci”. Impresa rivoluzionaria perché, strada facendo, scopriremo che il nostro progetto di rivelarci che chiaramente espone la nostra vulnerabilità mette alla prova il nostro orgoglio.
Progetto sconvolgente, perché mette in evidenza la nostra propensione a lasciare le cose così come sono, per paura di creare problemi agli altri, e anche per paura che siano gli altri a crearci dei problemi se osiamo parlare con sincerità”.
Questo “modello di comunicazione” basato su richieste realistiche e negoziabili va a completare il lavoro che Salomé e Gordon hanno proposto. La comunicazione non violenta appare un po’ come “l’anticamera della psicologia” perché ci invita ad entrare in contatto con noi stessi e con gli altri, lasciando andare le maschere e i nostri atteggiamenti di facciata e quindi ad entrare in contatto con la nostra paura di essere persone cattive, deboli o stupide.
Per relazione autentica parliamo di un “contatto tra cuore e cuore”, un contatto che ci tocca direttamente nell’anima, di una qualità molto particolare della relazione, fondata sull’autenticità e non sulla maschera.
Secondo Marshal Rosemberg l’idea di base della ‘Comunicazione Non Violenta’ è molto semplice da capire, ma è la sua applicazione che è difficile.
Questo perché tutto il “processo” di comunicazione tra le persone è radicato nei sentimenti e nelle emozioni, potremmo dire che è sensorialmente basato sul flusso ininterrotto di emozioni che scorrono dentro di noi, che ci attraversano scandendo la nostra vita con le loro ondate e maree, i loro riflussi, le loro tonalità affettive ed emotive.
Queste sono due configurazioni in cui si può trovare un essere umano che po’ essere rappresentato simbolicamente come suddiviso in tre centri:
- la testa che rappresenta lo spazio mentale
- il cuore come luogo dei sentimenti e delle emozioni
- il centro vitale sede dei nostri bisogni
- le gambe rappresentano la nostra capacità di agire
Quando tutti i centri sono in contatto e funzionano all’unisono stiamo esprimendo la nostra vera identità, siamo autentici, fedeli a noi stessi, collegati con il flusso dei nostri sentimenti e bisogni. Questo è il modo di funzionare naturale dell’essere umano. Siamo in “presa diretta” con la vita che scorre dentro di noi. Siamo totali.
Se i centri sono invece scollegati fra loro non siamo più integri, cioè interi, in contatto con la vita che si “anima” dentro di noi e quindi la comunicazione che porteremo nella nostra relazione non sarà congrua e rispondente a chi siamo veramente, alla nostra vera identità.
Questo modo di funzionare è alienato, cioè scollegato dalla vita. Di conseguenza perderemo potere personale e capacità di agire nel mondo.
Osservare senza giudicare
È quello ad aver beneficiato dell’educazione che abbiamo ricevuto, è quello che abbiamo allenato a scuola, disciplinato, perfezionato a essere efficace, produttivo, rapido. La nostra vita affettiva non ha ricevuto invece tutta questa attenzione.
Per questo motivo non possediamo un vocabolario adeguato in grado di esprimere le tonalità emotive che “suonano” dentro di noi, tutte le sfumature e le gradazioni dei nostri stati emotivi. Il pensiero-linguaggio con cui siamo stati educati è quello che Heidegger chiama pensiero calcolante, fondato sulla separatività, specializzato ad analizzare i problemi e scomporli in parti, categorizzare (kategorumenon nella logica aristotelica indica il concetto di ‘categoria’ ma era anche era il termine con cui si definiva il reo di un’azione contro la legge), etichettare, fare paragoni, diagnosticare, giudicare le cose per metterle ognuna in un suo cassetto ben distinto.
Siamo diventati maestri della logica e del ragionamento perché sin dall’infanzia è stata stimolata e perfezionata piuttosto la nostra comprensione intellettuale che la nostra comprensione o intelligenza emotiva.
Non essendo stati educati ad ascoltare quello che ci accade dentro, ad esprimere noi stessi, ad osservare la realtà, siamo orientati invece a valutare, etichettare, giudicare. Abbiamo in questo modo acquisito un linguaggio molto articolato per classificare gli altri, giudicarli, incasellarli in una categoria, rinchiuderli in quella precisa scatola e imballarli nel cellophane.
Vediamo di una persona solo la punta dell’iceberg e lo prendiamo per l’iceberg tutto intero. Solamente dalla nostra mente non riusciamo a cogliere la realtà nella sua interezza, ma abbiamo solo una visione parziale perché come ci ricorda Saint-Exupery: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”. Il pensiero da solo non riesce a cogliere il tutto. Per una comprensione totale della realtà è importante la partecipazione di entrambi gli emisferi del cervello!
Abbiamo così imparato a funzionare per abitudine, automatismi di pensiero, pre-concetti, idee preconfezionate, convinzioni non verificate, miti condivisi che sono diventate idee pigre che non mettiamo più in discussione e per questo ci possiedono.
Siamo abituati a dire frasi del tipo: “Gli uomini sono tutti maschilisti”, “Le donne guidano da imbranate”, “I dipendenti statali sono tutti fannulloni”, “I politici sono tutti corrotti”,”Una buona madre si deve comportare così”, “Si è sempre fatto così”, “In questo mondo non si può vivere da persone libere”. Affermazioni di questo genere sono espressione di una mappa del mondo ristretta (la mappa non è il territorio) che restringe poi la nostra libertà e non ci permette di contattare la nostra natura autentica.
Queste affermazioni riflettono essenzialmente le nostre paure, le nostre ferite, i nostri condizionamenti, la struttura delle nostre programmazioni inconsce.
Utilizziamo inoltre un linguaggio de-responsabilizzante che ci isola da noi stessi e dagli altri. Abbiamo imparato a proiettare sugli altri o su un fattore esterno la responsabilità dei nostri sentimenti: “Sono arrabbiato perché tu…”, “Sono depresso perché il mondo, il buco nell’ozono…”. Non siamo stati educati ad assumerci la responsabilità su ciò che proviamo e al contrario troviamo un capro espiatorio, scarichiamo il nostro malessere sull’altro che fa così da parafulmine delle nostre frustrazioni.
Crediamo che gli altri o gli eventi esterni possano essere la causa di stati che accadono dentro di noi. A questo riguardo diventa indispensabile distingure gli stimoli dalle cause dei nostri sentimenti che sono sempre interne.
Poi abbiamo anche imparato a non sentirci responsabili delle nostre azioni con frasi del tipo: “Il regolamento dice così…Questi sono gli ordini…La tradizione vuole che…È normale che…Si dice…La verità è…”.
Infine abbiamo imparato ad attribuire agli altri i nostri pensieri e le nostre convinzioni con frasi del tipo “Tu mi insegni che per fare quella cosa li…” oppure cerchiamo di leggere la mente dei nostri interlocutori, un residuato del pensiero magico infantile che cerca di ridurre l’ansia e controllare il mondo circostante tentando di indovinare quello che “frulla “ nella mente degli altri con frasi del tipo: “Quel mio amico mi odia” oppure “So cosa pensi di me”.
Lo spazio del cuore: i sentimenti
I sentimenti sono visti da Rosemberg come “spie luminose” sul cruscotto di un’auto, segnali che ci indicano che cosa sta succedendo dentro di noi, che ci informano sullo stato dei nostri bisogni.
Sentimenti dolorosi come la rabbia, la paura e la tristezza parlano di bisogni insoddisfatti; sentimenti felici come la pace, la serenità e la gioia parlano di bisogni soddisfatti. Indipendentemente dal fatto che possono essere piacevoli o sgradevoli, hanno una funzione fondamentale per mantenere il nostro sistema funzionante, per tenerci collegati alla vita che scorre dentro di noi. Essere scollegati infatti dai propri sentementi ed emozioni vuol dire essere scollegati dalla vita.
Per come è stata educata la maggior parte di noi, parlare delle proprie emozioni, quando eravamo bambini, non era usuale e in certe famiglie non era vista di buon occhio. Era considerata una manifestazione di infantilismo, narcisismo, egocentrismo: “Non è bene pensare a se stessi, bisogna pensare agli altri”.
Nella cultura in cui siamo stati educati, quando un bambino esprime la sua collera o la sua rabbia è molto facile che si senta rispondere: “Non bisogna arrabbiarsi, i bravi bambini non si arrabbiamo.
Vai nella tua stanza e torna quando hai riflettuto”. Le emozioni vengono inesorabilmente ricondotte alla ragione. E la ragione giudica, trova il colpevole (l’emozione) e in questo modo il bambino è costretto a mettersi in tasca la sua rabbia e per essere amato stamparsi in faccia un bel sorriso.
Lo stesso vale per la tristezza: “Non è giusto essere tristi, con tutto quello che facciamo per te! E poi ci sono persone molto più sfortunate. Vai nella tua stanza e pensaci”. Un’ altra emozione non riconosciuta.
E cosa succede nella testa del bambino, come si trasforma il suo dialogo interno: “È vero, non ho il diritto di essere triste, ho un papà, una mamma, dei fratelli, i giocattoli, una casa…di cosa mi lamento? Che cos’è questa tristezza? Sono un egoista e uno sciocco! Ecco due bei giudizi.
Un’altra condanna, una colpevolizzazione e una separazione dal cuore. E in tasca, oltre alla rabbia ci finisce anche la tristezza insieme ad un altro bel sorriso falso. Ecco come si impara ad essere ben educati piuttosto che sinceri.
E un bel giorno quel bambino è pieno di felicità, gioioso, corre dappertutto e gioca e disegna irradiando le sue emozioni intorno a se ma si sente dire: “Non esultare troppo, la vita non è poi così divertente”. Nemmeno la gioia è la benvenuta nel mondo degli adulti. Le emozioni non sono accettate dagli adulti e un bambino trae due considerazioni:
– essere adulti significa separarsi il più possibile dalle proprie emozioni
– per essere amato e avere il mio posto in famiglia e nel mondo, non devo fare ciò che sento e ciò che vorrei, ma quello che vogliono gli altri perché essere me stesso rischio di perdere l’amore
Da questa reazione derivano i condizionamenti che ci impediscono di diventare noi stessi. Del resto è anche importante non identificarci nelle nostre emozioni, per non essere preda di sequestri emozionali. Rimuginare, essere rancorosi ancora oggi per qualcosa che è capitato molti anni fa, oppure tristi e nostalgici per qualcosa che non riusciamo a lasciar andare ci impedisce di vivere in pienezza.
Il nostro spazio del cuore è abitato da flussi di emozioni, ondate di sentimenti complessi, gradevoli e sgradevoli che è utile saper riconoscere e distinguere. La cosa interessante è che questi ci informano su di noi, invitandoci a individuare i nostri bisogni.
È in questo senso che il sentimento è come una spia luminosa sul cruscotto di un auto: ci indica che una funzione viene o non viene svolta, che un bisogno è o non è soddisfatto. Spesso siamo isolati dai nostri sentimenti e dalle nostre emozioni oppure non possediamo un vocabolario adatto ad esprimerli proprio perché non siamo stati educati a farlo. Abbiamo poche parole per esprimere la ricchezza del flusso emotivo che scorre dentro di noi. Per prima cosa è essenziale sviluppare un vocabolario emotivo per ampliare la consa-pevolezza di ciò che viviamo.
Fin dall’infanzia, tutto l’apprendimento consiste nello sviluppare la conoscenza di materie e settori esterni a noi. A scuola impariamo la storia, la geografia, la matematica e in seguito l’informatica o la medicina sviluppando un vocabolario adatto a padroneggiare alcuni argomenti. Più è ricco il nostro vocabolario e maggiore è la nostra coscienza di quell’ambito.
Se non funziona più la caldaia il massimo che io possa fare è chiamare l’idraulico e dirgli che io ho un problema. Solo lui potrà esprimerlo in termini concreti: “C’è un guasto al bruciatore” oppure “L’iniettore del gas è incrostato”. Lui ha il potere di azione e di riparazione.
Nella nostra educazione abbiamo forse imparato a definire i nostri sentimenti e a distinguerli dai nostri bisogni fondamentali? A capire cosa ci accade dentro? Ad ascoltare i nostri bisogni per formulare semplici richieste, concrete e negoziabili che tengano conto dei bisogni degli altri? Quante volte ci siamo sentiti impotenti di fronte alle nostre emozioni, di fronte alla nostra collera o alla nostalgia che ci pervadono … e non riusciamo a venirne fuori!
Allora per “uscirne”, per trovare una risposta ad una vita interiore che non riusciamo a comprendere e dominare, troviamo un responsabile all’esterno, un capro espiatorio al dolore che abbiamo dentro, e ce la prendiamo con il governo, con il nostro lavoro, con la crisi, con il nostro “prossimo”: “Sono arrabbiato perché tu…sono triste perché voi…sono disgustato per via del mondo…”.
Invece di lamentarsi diventa importante connettersi con la nostra esigenza, con il bisogno non soddisfatto che sta alla base del sentimento che proviamo.
Lo spazio vitale: i bisogni
Se siamo isolati dai nostri sentimenti lo siamo del tutto dai nostri bisogni. Abbiamo imparato a soddisfare piuttosto le esigenze degli altri piuttosto che le nostre. È come se una lastra di cemento ci separi dai nostri bisogni. Porre attenzione a noi stessi, nella nostra educazione, è stato visto molto spesso come un segno di ego-centrismo. Avere dei bisogni per molti di noi può sembrare innaturale.
Questo è assurdo, perché non parliamo dei desideri, di pulsioni passeggere, ma dei bisogni di base di tutti gli esseri umani, quei bisogni che ci tengono in vita e colmando i quali ci fanno vivere in un equilibrio soddisfacente. Parliamo di bisogni vitali oppure dei bisogni che riguardano i nostri valori fondamentali come il bisogno di identità, rispetto, comprensione, responsabilità, libertà, collaborazione, contatto, connessione.
Comprendere bene i nostri bisogni ci aiuta a capire meglio i nostri valori.
Se ci allontaniamo dai nostri bisogni qualcuno ne pagherà il prezzo. La separazione tra noi e i nostri bisogni si paga in diversi modi:
– Facciamo fatica ad operare delle scelte che ci impegnano personalmente, e prendiamo la via che ci sembra più saggia più per compiacere e/o appartenere piuttosto che ascoltando il nostro impeto profondo
– Tendiamo ad apprezzare di più l’opinione altrui perché siamo incapaci di identificare i nostri bisogni, quelli che ci appartengono personalmente. In questo modo apparteniamo al parere degli altri: “Cosa ne pensi? Cosa faresti al mio posto?” oppure “Cosa penseranno di me? Devo fare questo o quello! Devo comportarmi così altrimenti…”. Il rischio è diventare una banderuola di una moda, di una corrente. Non stare in ascolto dei nostri bisogni ci sottopone all’influenza di varie mode e dipendenze (denaro, potere, sesso, televisione, gioco, alcol, medicine, droghe, internet) o di istituzioni formali come i partiti, le chiese, le istituzioni.
– Siccome abbiamo imparato a soddisfare i bisogni degli altri, a essere bravi ragazzi per essere amati, educati, gentili e cortesi, che pensano a tutti tranne che a se stessi, se un giorno constatiamo che le nostre esigenze non sono soddisfatte, deve esserci per forza un colpevole, qualcuno che non si è occupato di noi. “Sono triste perché…mio marito/mia moglie” oppure “Sono scoraggiato perché…” oppure “L’inquinamento mi deprime…”. È una vita da “mendicanti” e depressi.
– Altre volte imponiamo agli altri i nostri bisogni in modo autoritario e senza appello, perché ci siamo sentiti troppo sottomessi a quelli degli altri o perché abbiamo avuto troppa paura di farli valere. “È così e basta!”. Entriamo così in un esercizio violento dell’autorità. È una vita da “pistoleri” e narcisisti.
Già solo il fatto di identificare un bisogno è un grande sollievo e ci può dare una magnifica sensazione di benessere perché ci fa comprendere qualcosa di essenziale di noi e ci fa uscire dalla confusione. “I bisogni degli esseri umani sono uguali per tutti. Forse non tutti li esprimono o li vivono alla stessa maniera nello stesso momento”.
Imparare a fare richieste
Formulando una richiesta chiara e negoziabile, una proposta d’azione concreta, ci liberiamo dalla terza lastra di cemento che ci ostacola e ci impedisce di intraprendere qualsiasi azione rivolta la soddisfacimento dei nostri bisogni.
“Formulando una richiesta concreta usciamo dalla aspettativa, spesso disperata, che l’altro comprenda la nostra esigenza e accetti di soddisfarla, attesa che può durare un’eternità e rivelarsi abbastanza frustrante”. Siamo noi ad assumerci la responsabilità e in questo ci appropriamo del nostro “potere personale”. La richiesta non è una pretesa, per cui la reazione dell’altro, non essendo vincolata da aspettative, ci lascerà sereni.
Una delle conseguenze della nostra educazione è cercare di risolvere le cose in fretta e mentalmente. Ottenere il risultato immediato, risolvere i problemi in essere senza prendersi il tempo necessario per ascoltare tutti i fattori in gioco. Siamo condizionati dal “mito dell’efficienza”.
Un altro aspetto da considerare sono i “malintesi”, cioè cose “ascoltate male” che a loro volta sono state “espresse male” o addirittura cose non dette. Possiamo imparare a fare domande per essere sicuri di avere capito bene (“Mi hai detto che? Ho capito bene?Mi stai dicendo che…”) e prenderci il tempo per rispondere con sensibilità, forza e verità.
Ecco un esempio conclusivo che utilizza il processo di comunicazione non violenta:
- osservazione (O)
- sentimento (S)
- bisogno (B)
- richiesta (R)
“Cara stasera sono stanco (S) avrei proprio voglia di non fare niente e non ho voglia di cucinare (B). Saresti d’accordo se andassimo al ristorante? (R)”
“Anch’io tesoro sono sfinita (S). Sono contenta che tutti e due abbiamo bisogno di non fare niente (B). Però mi dispiace anche (S) che in questi ultimi tempi siamo stati tutti e due così occupati. Ho bisogno di passare un po’ di tempo tranquilla con te, di stare io e te completamente soli (B) e ho paura che se andiamo al ristorante saremo disturbati dal cameriere e distratti dagli amici.
Allora preferirei che restassimo a casa tranquilli. La cena è già pronta, ceniamo insieme, e poi, se vuoi, ho noleggiato quel film che non abbiamo mai avuto occasione di andare a vedere (R).
“Mi hai fatto capire che ho bisogno esattamente della stessa cosa: ritrovare un po’ di intimità con te trascorrendo insieme la serata, ecco perché per stasera ti proponevo un ristorantino. Però sentendo la tua proposta di restare a casa, mi sento un po’ deluso perché ho bisogno di cambiare un po’ aria, di uscire un po’ di casa, una volta tanto che i bambini non ci sono (B).
In questa conversazione fuoriuscita da un laboratorio esperienziale emerge come ci siano varie strategie per prendersi cura di un bisogno e come sia importante uscire dalla convinzione che esista un’unica soluzione.
II metodo di comunicazione non violenta ideato da Rosemberg non è un procedimento meccanico e mentale, bensì va calato nel flusso empatico dei sentimenti e dei bisogni che emerge soprattutto nel linguaggio non verbale. Anche se andiamo fieri del nostro linguaggio verbale e delle sue sfumature, il linguaggio non verbale, secondo gli specialisti del settore, costituirebbe circa il 90% della nostra comunicazione.
Con questa consapevolezza è importante essere orientati all’osservazione del linguaggio del corpo (il tono della voce, la velocità con cui parliamo, l’espressione facciale, la posizione del corpo) nostro e dell’interlocutore. Per rendercene conto d’Ansenbourg ci invita a constatare la portata di uno sguardo di rimprovero o di approvazione di una persona cara (genitore, compagno, insegnante, superiore).
Come per imparare una nuova disciplina, una nuova lingua, Thomas D’Ansembourg ci invita a praticare “Tre minuti, tre volte al giorno ad ascoltare voi stessi, senza giudizi, senza rimproveri, senza consigli, senza tentativi di soluzione. Tre minuti di presenza per voi stessi, non per i vostri progetti ne per le vostre preoccupazioni bensì per fare il punto dei vostri luoghi interiori senza cercare di cambiare nulla”.
Questa prescrizione è simile ad una prescrizione omeopatica: Ascoltando noi stessi in questo modo, poco per volta possiamo capire dove ci stiamo dirigendo, dove stiamo andando e, liberi dall’idea di risolvere presto un problema, di ottenere rapidamente un risultato, portare la nostra attenzione e la nostra coscienza alla vita che emerge dentro di noi.
Dov’è la vita? Cosa dice la vita dentro di me? Quali sono i bisogni soddisfatti?
Thomas D’ansembourg, Smettila di essere gentile se non sei autentico, Paoline, 2007