Oggi molti hanno nostalgia e sete di itinerari spirituali. Però cercano una spiritualità loro confacente non nella tradizione cristiana, bensì nelle religioni orientali. Spesso infatti hanno sperimentato una spiritualità troppo moraleggiante e troppo poco proficua in ordine a esperienze di trascendenza, di pace interiore e di armonia.
Oggi abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio e di nuove vie di esperienze in modo da ridisegnare e da praticare una spiritualità cristiana che interessi e interpelli le persone nel loro anelito di crescita integrale, di liberazione e di guarigione.
Nella storia della spiritualità ci sono oltre tutto due correnti: una spiritualità dall’alto e una spiritualità dal basso. Secondo quest’ultima Dio non ci parla soltanto nella Bibbia e per mezzo della chiesa, ma anche attraverso noi stessi, attraverso i nostri pensieri e sentimenti, attraverso le nostre piaghe spirituali, le nostre debolezze.
Tale via era praticata soprattutto nel monachesimo. I monaci antichi iniziavano innanzitutto dalle proprie passioni, dalla conoscenza di se stessi per conoscere e incontrare il vero Dio. Evagrio Pontico ci fornisce la formula classica di questa spiritualità dal basso: “ Se vuoi conoscere Dio, impara prima a conoscere te stesso”.
L’ascesa a Dio comporta la discesa nella propria realtà interiore fin giù nelle profondità dell’inconscio. La spiritualità dal basso non considera la salita a Dio come una strada a senso unico e sempre nella direzione giusta. No, questo avanzare verso Dio è fatto di giri fuorvianti e tortuosi, cioè di fallimenti e di autodelusioni.
Non è prima di tutto la mia virtù ad aprirmi il varco a Dio, ma la mia debolezza, la mia impotenza, addirittura il mio peccato.
La spiritualità dall’alto è impostata sugli ideali, cioè sugli obiettivi che l’uomo attraverso l’ascesi e la preghiera dovrebbero raggiungere. Questi ideali sono ricavati dallo studio della sacra Scrittura, dalla morale cristiana e dalla visione che si ha di se stessi. Ecco le domande fondamentali della spiritualità dall’alto: come deve essere un cristiano? Cosa deve fare? Quali atteggiamenti deve incarnare?
Questa spiritualità deriva dal grande desiderio umano di migliorare sempre di più, di salire sempre più in alto, di avvicinarsi sempre di più a Dio.
La psicologia moderna è molto scettica nei confronti della spiritualità dall’alto, in quanto porta il pericolo di una lacerazione interiore della persona. Chi infatti si identifica con gli ideali rimuove spesso quella realtà di sé non corrispondente agli stessi. In questo modo la persona si scinde e si ammala interiormente. Dalla psicologia arriva piuttosto la conferma di una spiritualità dal basso, come era praticata dagli antichi monaci. Risulta chiaro infatti dalla psicologia che la persona raggiunge la propria verità solo attraverso la conoscenza sincera di sé.
Ma nella spiritualità dal basso non si tratta soltanto di ascoltare la voce di Dio nei propri pensieri e sentimenti, nelle proprie passioni e malattie, e così scoprire l’immagine-progetto che Dio si è fatto di me.
E nemmeno si tratta soltanto di ascendere a Dio scendendo nella propria realtà. Si tratta piuttosto di aprirsi ad una relazione personale con Dio proprio quando si è giunti al capolinea delle proprie possibilità. La vera preghiera, dicono i monaci, sale dal profondo della nostra indigenza e non dalla nostra virtù.
Non vogliamo contrapporre in modo radicale la spiritualità dal basso a quella dall’alto, l’unilateralità non giova mai. Intercorre una sana tensione tra queste due impostazioni spirituali. La spiritualità dall’alto pone davanti al nostro sguardo degli ideali di cui infervorarsi e infine da praticare.
Gli ideali esercitano senz’altro un effetto positivo sulle persone. Soprattutto per i giovani gli ideali sono una necessità vitale, giacchè senza questi la loro vita ruoterebbe intorno a se stessi. Non potrebbero sviluppare affatto le potenzialità che hanno in sé, e venire in contatto con le loro forze che attendono di essere risvegliate.
Il pericolo della spiritualità dall’alto consiste nel pensare di raggiungere Dio con le sole proprie forze. Ecco come Lafrance descrive questa perfezione su sentiero interrotto: “L’uomo si è rappresentato la perfezione in generale come una crescita costante oppure come una salita più o meno difficoltosa, come risultato di sforzi umani. Per cui elabora un determinato itinerario ascetico o delle tecniche di preghiera da proporre alla generosità umana come mezzo per salire i gradini della perfezione. Quando il discepolo fa presente al maestro spirituale l’impossibilità di raggiungere la meta, si sente spesso ripetere: ‘Basta solo sforzarsi’. Raggiunto l’ultimo gradino della salita ecco che questo sforzo sboccerà spontaneamente in libertà. Eppure col nostro sforzo non riusciamo a raggiungere Dio. Il paradosso è questo: tutta la nostra lotta spirituale ci porta soltanto ad ammettere che con la sola lotta non riusciamo né a migliorarci né a raggiungere Dio. Non possiamo fare di noi quello che vogliamo. A un certo punto i limiti emergono, è gioco forza allora ammettere che con le sole nostre forze necessariamente falliremo, e che soltanto la grazia di Dio ci può trasformare.
La Bibbia non ci mette mai sotto gli occhi quali modelli della fede persone perfette e senza difetti, ma proprio dei personaggi che, dopo aver commesso gravi colpe, hanno gridato a Dio nel profondo. Ecco Abramo che in Egitto rinnega sua moglie facendola passare per sua sorella, e questo per ricavarne dei vantaggi. Succede però che il faraone accoglie Sara nel proprio harem. Dio stesso dovrà intervenire per liberare il “padre della fede” dalle conseguenze della sua bugia (Gen 12,10-20). Mosè, il liberatore d’Israele dall’Egitto, era un omicida. In un eccesso di rabbia aveva ucciso un egiziano. Anzitutto dovrà confrontarsi con la propria inutilità, che egli vede riflessa nell’immagine del roveto ardente, per essere assunto da Dio nel suo servizio proprio in quanto fallito. E Davide, il re d’Israele per antonomasia, archetipo di tutti gli altri re, commette una colpa grave facendo l’amore con Bersabea, moglie di Uria. Quando lei si troverà incinta, egli ordinerà di lasciare l’ittita Uria solo a combattere, così che venga ucciso.
I grandi personaggi e le figure-chiave dell’Antico Testamento dovettero prima attraversare l’abisso della propria colpa e impotenza, per porre la loro speranza soltanto in Dio, lasciandosi così trasformare da Dio in figure-guida della fede e dell’obbedienza a Dio.
Nel Nuovo Testamento Gesù sceglie proprio Simon Pietro per essere la pietra base della sua comunità. Pietro non capisce Gesù, vorrebbe stornarlo dalla sua decisione di andare a Geruusalemme incontro a una morte sicura. Gesù lo chiama un “satana” e gli ordina di allontanarsi da lui. Alla fine Pietro rinnega Gesù, quando fu arrestato; poco prima aveva solennemente giurato. «Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò». Era necessario che egli sperimentasse di non riuscire a garantire per se stesso, nonostante la solenne promessa. Quando alla fine tradì Gesù, Pietro «uscito all’aperto, pianse amaramente».
Gli evangelisti non hanno attenuato il rinnegamento di Pietro. Appare evidente che per loro era importante manifestare senza riguardi che la verità che Gesù non aveva scelto apostoli pii e affidabili, ma uomini peccatori e difettosi. Eppure ha fondato proprio su questi uomini la sua Chiesa. Essi erano i testimoni adatti della misericordia di Dio, come l’aveva annunciata Gesù e testimoniata con la sua morte. Pietro è diventato la roccia-pietra per gli altri proprio attraverso la sua colpa. Ha infatti sperimentato che la roccia non è lui, ma solo la fede, cui deve stare aggrappato per poter restare fedele a Cristo nella lotta.
Nella parabola del tesoro nascosto Gesù ci mostra che noi possiamo trovare il tesoro – il proprio Sé, l’immagine-progetto che Dio si è fatta di noi – proprio nel campo, nella terra, nel fango (Mt 13,44-46).
Dobbiamo prima sporcarci le mani scavando nella terra, se vogliamo trovare il tesoro nascosto in noi. La parabola della perla preziosa ci fa vedere un altro aspetto della spiritualità dal basso: la perla è un’immagine di Cristo in noi. Essa cresce nelle ferite delle conchiglie. Troviamo dunque il tesoro in noi quando veniamo in contatto con le nostre ferite.
Pertanto la ferita non è solo il luogo in cui veniamo in contatto con il nostro Sé. Là dove siamo giunti al capolinea, dove non ci resta che darci per vinti, può crescere la relazione con Cristo, possiamo intuire di essere del tutto Cristo-dipendenti. Là cresce allora la nostalgia e l’anelito del Redentore e Salvatore, là tendiamo verso colui che toccando le nostre ferite le risana. Cristo è la dramma che, perduta nel disordine della nostra casa interiore, dobbiamo ora cercare (Lc 15,8). Potremo trovarla soltanto se spostiamo i mobili, non serve il fatto che li abbiamo sistemati bene. Dio stesso con una crisi scompiglia tutto il nostro “ordine” interiore, affinché ritroviamo la dramma persa per negligenza.
Un’altra parabola con cui Gesù fonda la spiritualità dal basso è quella della zizzania in mezzo al buon grano (Mt 14,24-30). Paragona la nostra vita a un campo in cui Dio ha seminato il buon seme. Però nella notte il nemico vi si reca e semina la zizzania in mezzo al grano. I servi, che domandano al padrone se vuole che essi strappino subito la zizzania, stanno per l’idealista rigoroso che vorrebbe sradicare subito tutti i difetti. Ma il Signore risponde loro: «No, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura». Le radici della zizzania sono talmente intrecciate a quelle del grano che, con la zizzania, verrebbe strappato anche il grano. Chi vuole essere senza difetti finisce per estirpare insieme alla sua passione anche la sua vitalità, distrugge insieme alla sua debolezza anche la sua forza. Sul campo di chi vuole essere corretto in tutto e per tutto crescerà solo del grano povero.
Molti idealisti hanno il chiodo fisso della zizzania presente nella loro anima, continuano a ruotare intorno al compito di estirparla, ma così la vita ne soffre. A furia di correttezza rimangono alla fine senza forza, senza passione, senza cuore. La zizzania richiama l’ombra, in cui releghiamo ciò che abbiamo rimosso in quanto ripugnante e non rispondente ai nostri parametri. Essa è semplicemente dentro di noi; è stata seminata di notte, cioè giace nel nostro inconscio. Per quanto lottiamo – di giorno, cioè sul piano del conscio – contro tutto ciò che è negativo e oscuro, di notte succede che la zizzania venga seminata nostro malgrado. E’ quindi compito nostro riconciliarci con la nostra zizzania, in questo modo sarà possibile che il grano cresca nel campo della vita.
L’incarnazione stessa di Dio in Gesù Cristo è già un segno della spiritualità dal basso. Gesù nasce in una stalla, non in un palazzo; non nella capitale, ma a Betlemme, in provincia, cioè vuol nascere in quella parte di noi che non ha importanza. Non abbiamo niente da mettere in bella mostra davanti a Dio. Ebbene proprio là dove siamo poveri e deboli, Dio vuole abitare.
Spiritualità dal basso significa cercare Dio proprio nelle nostre passioni, malattie, ferite, nel nostro vagabondaggio spirituale, nella nostra impotenza. Spiritualità dal basso vuol dire ascoltare la voce di Dio nei nostri pensieri e sentimenti, nelle nostre passioni e bisogni: qui ci parla Dio.Ascoltandola scopriamo l’immagine che Dio si è fatto di noi. Pertanto non dobbiamo censurare le emozioni e le assioni; hanno tutte un senso, si tratta solo di cogliervi le indicazioni di Dio.
Molti condannano se stessi per i loro sentimenti negativi quali la collera, la stizza. La gelosia e l’apatia. Essi cercano di procedere contro tali sentimenti per sbarazzarsene. Spiritualità dal basso significa invece riconciliarsi con le proprie passioni ed emozioni: tutte quante possono portare a Dio.Bisogna solo calarsi in esse per leggerne il messaggio.
Anziché combattere contro la mia gelosia e condannarmi per il fatto che, nonostante tutta la mia spiritualità, sia ancora presente in me, dovrei studiarla e domandarmi: «Quale nostalgia si nasconde dietro la mia gelosia? Quale bisogno mi sta ad indicare? Da dove proviene la mia gelosia? Di che cosa ho paura? È la paura di essere abbandonato, di non essere più importante per il mio amico o amica?». Se riconosco umilmente di esserne affetto, la mia gelosia mi può condurre a Dio. Allora potrò presentare a Dio la mia indigenza, la mia paura di essere abbandonato e pregarlo di soddisfare il mio desiderio ardente di un amore su cui poter contare.
La spiritualità dal basso insegna un trattamento diverso delle proprie ferite. Ognuno di noi porta con sé una qualche ferita inflittagli dalla vita: l’uno è stato picchiato ingiustamente da bambino, senza possibilità di difesa; un altro è stato ridicolizzato e non preso sul serio; un altro ancora è stato vittima di abusi sessuali.
Alcuni si difendono dai traumi della propria infanzia, diventano interiormente rattrappiti. Il che è spesso addirittura necessario per sopravvivere; però impedisce nello stesso tempo di vivere normalmente. Altri rimuovono i traumi tenendoli ermeticamente sotto un coperchio. Ma vivono nella continua paura che, per la troppa pressione interiore, si arrivi ad una esplosione. Altri ancora si lasciano paralizzare dalle loro ferite: ci ritornano su continuamente e rinunciano ad avventurarsi nella vita per paura di subire nuove ferite. La spiritualità dal basso ci vuol svelare che proprio nelle nostre ferite possiamo scoprire il tesoro che giace nascosto nel fondo della nostra anima.
Proprio là dove siamo feriti, dove siamo infranti siamo anche resi aperti a Dio. Là siamo anche aperti all’incontro con il nostro vero Sè.
Attraverso le mie ferite scopro chi sono veramente; vengo in contatto con il mio cuore, riprendo vitalità e scopro il tesoro del mio vero Sé. Le ferite stracciano le maschere che mi sono imposto, mettendo a nudo la vera realtà profonda. Bisogna ammettere che il cammino di questa spiritualità dal basso non è così semplice; presuppone che mi riconcili con le mie ferite, che le consideri come le mie migliori amiche, come quelle che mi indicano la via che porta al tesoro. Là dove sono ferito, sono anche completamente me stesso.
Molto spesso la vita ci delude: siamo delusi di noi stessi, dei nostri insuccessi e fallimenti, delusi della professione, del nostro coniuge, della famiglia, della parrocchia. Alcuni reagiscono a tali delusioni rassegnandosi, si adagiano alla vita così com’è. Ma nel loro cuore si spegne ogni vivacità e ogni speranza; i sogni della vita vengono sepolti. Anche la delusione mi potrebbe indirizzare al tesoro. La delusione smaschera l’illusione in cui sono cascato e la soppianta. Mi mostra che la mia autoimmagine non era vera, che ho sbagliato nel valutarmi. Così la delusione costituisce l’opportunità per scoprire il vero Sé e l’immagine-progetto che Dio ha di me.
«Le ostriche ferite fanno nascere dalle loro piaghe sanguinanti una perla. Il dolore che lacera si trasforma in un gioiello» (Richard Shanon).
Nelle mie ferite crescono le perle, ma solo se mi riconcilio con le mie ferite. Spesso fa male venire in contatto con la mia piaga, sento la mia impotenza a liberarmene; rimarrà sempre in me, se non altro in forma di cicatrice. Ma, se l’accetto, la mia ferita potrà trasformarsi in una sorgente di vita e di amore. Là dove sono ferito sono anche vivo, ivi sento me stesso e gli altri. Vi posso lasciare entrare anche gli altri, la mia ferita diventa così luogo di incontro e di contatto salutare anche per gli altri. Nessuno può penetrare dalla parte in cui sono forte. Dove sono “rotto” Dio potrà irrompere e anche gli uomini troveranno una breccia per accedere.
E’ Dio che mi trasforma, che mi apre a lui attraverso i miei fallimenti e peccati, attraverso i miei insuccessi e delusioni, affinché io smetta finalmente di scambiare Dio con la mia virtù, e mi consegni a lui anima e corpo. A questo varco incontrerò Dio, che mi accoglie per farmi vivere.
Nell’accompagnamento spirituale sperimentiamo in continuazione come le persone soffrano a causa della loro spiritualità dall’alto. Abbastanza spesso i loro ideali le sovraccaricano spiritualmente. E’ come se si fossero imposte un corsetto spirituale troppo stretto che talora le ha fatte ammalare. Quando prospettiamo loro la spiritualità dal basso, avvertono ciò come una liberazione e una guarigione. Ma nello stesso tempo cerchiamo di dire ai nostri visitatori che anche la spiritualità dall’alto, da loro praticata finora, era buona, se non altro perché le ha costrette a lavorare sodo su se stesse.
Volendo esprimerci per immagini: la loro spiritualità dall’alto è simile a una pietra che un uomo cattivo aveva posto nella corona di una giovane palma, per danneggiarla. Ma quando dopo alcuni anni ritornò, quella giovane pianta era diventata la palma più bella e più alta. La pietra l’aveva costretta a mettere le radici più in profondità. Così anche i nostri ideali ci costringono sovente a mettere radici più profonde.
Ma le radici devono essere così forti da non avvertire più la pesantezza della pietra. Se praticassimo soltanto la spiritualità dall’alto, le sue richieste diventerebbero eccessive, prima o poi ci stancheremmo.
Pur coltivando molto la disciplina, una volta ci capiterà anche di confrontarci con la nostra mancanza di disciplina; pur coltivando gli ideali, ci capiterà anche di sperimentare i lati deboli della nostra vita. Al più tardi a metà percorso della nostra vita è necessario permettere il polo contrario, che pure convive in noi, cioè la parte in ombra. Entrerà così in azione la spiritualità dal basso: su questa nuova via dovremo trovare il coraggio di percepire e di seguire la voce di Dio nel nostro cuore, nelle nostre passioni, nei sentimenti, nei sogni, nel nostro corpo.
Una spiritualità sana ci mostra sempre i due poli: luci e ombre, forza e debolezza, larghezza e strettezza. Una volta o l’altra capita però che ogni strada finisca nella strettoia, dove non sappiamo più come andare avanti. Non spaventatevi, la strettoia è un’opportunità per far breccia nella vera vita.
Anselm Grün e Meinard Dufner, Spiritualità dal basso, Editrice Queriniana, 2011