“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio,
di quante ne sogni la tua filosofia”,
W. Shakespeare
Uno dei grandi rischi in psicologia credo rimanga quello di identificarsi o di farsi eccessivamente influenzare da quell’atteggiamento, esploso nella seconda metà del XIX, secondo cui «La visione del mondo dell’uomo moderno accettò di venir determinata dalle scienze positive».
Una eccessiva ed unilaterale fiducia verso la definizione, la classificazione e l’oggettivazione della psiche che «Si lasciò abbagliare dalla prosperità che ne derivava [e] significò un allontanamento da quei problemi che sono decisivi per un’umanità autentica».(2).
Tale presa di distanza fu una delle preoccupazioni principali del movimento fenomenologico che mise in luce come nel campo delle scienze umane, quelle che hanno per oggetto il soggetto, un orientamento troppo unilaterale verso l’oggettivazione, esprima di fatto una dis-umanizzazione e quindi una espropriazione dell’oggetto stesso della loro conoscenza.
È il tema della scienza esatta e calcolante, riduzionista e determinista, che pretendendo di essere distaccata e neutrale finisce per avvitarsi su se stessa escludendo dal suo orizzonte proprio ciò che caratterizza la cifra dell’umano ossia la sua appartenenza al vivente, all’animato, al creativo.
Di fronte a questa inclinazione, la cui conseguenza ultima fu una radicale scissione tra soggetto e oggetto, la fenomenologia ha orientato il suo interesse ad uno studio «Delle forme della nostra esperienza, che non cadesse nell’errore di confondere il senso dell’esperienza, con le modalità empiriche della sua realizzazione fisiologica». (3).
L’invito husserliano a «Tornare alle cose stesse» esprimeva questa fondamentale necessità di un nuovo atteggiamento che attraverso la sospensione delle pre-comprensioni (Epoché) potesse mettere al centro l’esperienza vissuta (Erlebnis) perché «Il mondo non è ciò che io penso, ma ciò che io vivo» (4) e la psiche non è un oggetto, bensì un corpo e più precisamente un corpo vivente che abita il “mondo della vita” (Lebnsvelt), che non sta al mondo come le altre cose del mondo, ma come un soggetto in grado di relazionarsi con il mondo, intessere relazioni, tessiture e panorami di significato.
L’uomo è un animale razionale (zoòn lògon èchon) e se vogliamo tradurre questa celebre massima aristotelica in modo meno unilaterale, come ci suggerisce Raimond Pannikar in una delle sue ultime interviste: «L’uomo è quell’essere vivente attraverso cui il lógos transita». (5)
Questo fenomeno di transito, ma anche di rispecchiamento e di confine, è prima di tutto una esperienza di un attraversamento. Il fenomeno dello spirito che transita la materia si presenta anzitutto come esperienza di un fondamento misterioso che ci sorregge, che anche se non possiamo spiegare, definire o conoscere come oggetto, possiamo sentire in tutta la sua solidità e presenza. Nella sua piena maturità Jung afferma:
“[…] Non ho un giudizio definitivo da dare su me stesso e la mia vita. Non vi è nulla di cui mi senta veramente sicuro. Non ho convinzioni definitive, proprio di nulla. So solo che sono venuto al mondo e che esisto […] sul fondamento di qualche cosa che non conosco. Ma nonostante tutte le incertezze, sento una solidità alla base dell’esistenza e una continuità nel mio modo di essere. (6).
Una solidità che non è certo quella dell’Io, che pur di continuità vive e si alimenta, bensì quella dell’anima (psyché), (7) come di un manifestarsi che non si può giudicare ma solo vivere, farne l’esperienza perché «Il fenomeno della vita e il fenomeno dell’uomo sono troppo grandi». (8).
In queste parole così sagge riecheggia quel frammento del vecchio Eraclito che probabilmente, come afferma Hillman citando Aristotele, fu il primo psicologo del profondo della tradizione occidentale, (9) che ci fa percepire tutto lo sfondo abissale dell’esperienza della vita che alberga dentro di noi:
«Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos».(10)
La psyché, ossia l’anima qui intesa come corpo vivente, se non può essere conosciuta e giudicata, messa in categorie (11) chiare e distinte, può essere vissuta e sperimentata. Non a caso Jung si astiene da voler dare un giudizio su tale fenomeno, cercando invece di esprimere una misteriosa esperienza che pare manifestarsi come cifra fondativa dell’umano. In questo senso, anche l’invito ad andare alle cose stesse del fenomenologo, esprime questo tentativo, non scevro di conseguenze epistemologiche, di superare la scissione tra soggetto e oggetto in una unità originaria io-mondo che come spiega Merleau-Ponty è:
“[…] Ritornare a questo mondo anteriore alla conoscenza di cui la conoscenza parla sempre, e nei confronti del quale ogni determinazione scientifica e astratta, segnitiva e dipendente, come la geografia nei confronti del paesaggio, in cui abbiamo imparato cos’è una foresta, un prato, o un fiume”. (12)
Se l’anima non si può spiegare, come quel territorio che non si può percorrere per intero perché troppo grande al fine di tracciarne una cartografia dettagliata e definitiva, si può tuttavia contemplare e ammirare, conoscere nei panni o meglio nel corpo di quell’esploratore che in quel territorio transita, passa attraverso.
Questa pubblicazione, che si presenta come una raccolta di scritti relativi a seminari tenuti per lo più da analisti junghiani di lunga esperienza, (13) potrebbe essere vista come esperienza di attraversamento di un territorio complesso, nelle sue mutevoli e infinite sfumature morfologiche e varianti fenomeniche. Il vivente palpita e risuona in noi con tutta la sua storia attraverso infinite tonalità emozionali, esperienze esistenziali, trame stratificate di storie, modelli e comportamenti, così come il territorio si presenta all’esperienza di quell’esploratore che non voglia solo fare della cartografia, in tutti i suoi miracolosi e creativi giochi morfologici e climatici.
La profondità dell’anima, pur nella sua mutevolezza ed indeterminatezza, come ci ha insegnato Jung, ci parla tuttavia di pattern o modelli abituali che indicano costanza, invarianza o quantomeno mutazioni i cui cambiamenti possono essere comprensibili solo su una scala temporale molto ampia. Verosimilmente il modo di provare paura, sperimentare il piacere, vivere la rabbia o incarnare il coraggio di un managerlondinese non è potenzialmente dissimile da quello di un aborigeno australiano o più in generale di un nostro antenato vissuto migliaia di anni fa. Come ci ricorda Joseph Campbell è come se gli antichi nella loro esperienza di transito ci abbiano lasciato una mappa dell’esperienza, «Dell’esperienza di essere vivi» (14) e questa trama è un mythologhéin il che vuol dire che è scritta con il lógos del mito: in questo senso «La mitologia è una carta stradale interiore dell’esperienza, disegnata dalla gente che ha viaggiato». (15).
Il racconto (mythos), è la forma dell’anima (psyché), la sua intima strategia, il suo modo di esprimersi e di manifestarsi, una trama di cui è tessuto il nostro corpo vivente. Il confrontarsi con queste immense aree sepolte, nelle trame della specie così come nella biogra a personale, il lento disseppellire questo materiale strappando piccoli brandelli da questo sfondo abissale per consegnarli alla coscienza, questo è il lavoro analitico.
In questi scritti, ricchi di spunti, riflessioni e amplificazioni e resi vivi e palpitanti da racconti, sogni e tracce provenienti dall’esperienza professionale e umana di lunghi anni di esperienza analitica dei loro autori, il lettore è condotto ad avventurarsi nei territori sconfinati dell’anima ma anche all’interno di alcune regolarità, forme, tracce che nelle loro ombre e bagliori, caratterizzano la natura dell’antropologia umana. Spesso è il pubblico che, intervenuto in modo interattivo completa e arricchisce il discorso, offre all’esplorazione di questo inesauribile territorio nuovi e inaspettati punti di vista.
Se l’anima come dice Jung appare come la «Quintessenza della relazione»(16), emozioni, passioni, sentimenti, o stati d’animo, nelle loro infinite variazioni tematiche, ne costituiscono senz’altro la più evidente tessitura oltre che il modo di apparire fenomenico. È per questo che il lettore si sentirà guidato lentamente attraverso questi scritti, che parlano di un vasto arcipelago, costituito solamente da alcune tra le più importanti emozioni, a superare la concezione ingenua, molto diffusa nel senso comune, che le emozioni e i sentimenti “accadrebbero” dentro di noi e sarebbero quindi esclusivamente legati alla sfera soggettiva, privandoli di ogni apertura, oltre che verso il mondo esterno, all’universale.
Il mistero dell’anima è racchiuso nella relazione fra due esseri umani, è mysterium coniunctionis:
“L’anima […] vive solo di relazioni umane (17) – in quanto – il vivente segreto della vita è sempre nascosto fra Due, ed è questo il vero mistero, che le parole non possono svelare e le argomentazioni non possono esaurire.” (18)
Gianluca Minella, membro del Comitato scientifico editoriale Temenos.
AA.VV., La geografia delle emozioni, Paolo Emilio Persiani Editore (Collana Temenos), Bologna, 2017