un guscio di noce e ciò nonostante abbracciare
tutta la pienezza della vita”, Thomas Mann “In ultima analisi, noi contiamo qualcosa solo
in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non
la realizziamo la vita è sprecata”,
Carl Gustav Jung “Nella vita sono due i giorni importanti: quello
in cui si nasce e quello in cui si scopre perché”,
William Barclay
Per parlare di Felicità sento di rivolgermi a tutti i visitatori del mio sito ma soprattutto a chi soffre e sta attraversando un momento difficile oppure chi è ad una svolta importante della sua vita, a chi ha perso il lavoro, a chi è caduto in una crisi profonda, a chi non riesce a realizzarsi pienamente, a dare un senso pieno alla sua esistenza. Voglio rivolgermi alla loro parte essenziale, autentica, vitale, alcune volte sofferente perché non pienamente adattata, altre volte quasi rassegnata e spenta, apparentemente senza più alcuna speranza, perché sono convinto che chiunque sia ancora vivo abbia talenti e risorse necessari per considerare un momento difficile della vita come una grande occasione di rinascita e di trasformazione.
Molti grandi donne e uomini è proprio perché si sono trovati ad attraversare un momento difficile e drammatico che sono riusciti ad attingere a risorse e sviluppare capacità che avrebbero ritenuto impossibili incarnare, se non si fossero trovati li, in quel difficile guado, in quella crisi tanto profonda da togliere il fiato.
Come dice il Talmud:
“Se non sono io per me chi sarà per me?”
Sento di rivolgermi soprattutto ai giovani che stanno male, al loro bisogno di senso, al loro disagio che non è psicologico, “non è esistenziale, ma culturale” (1).
“Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita […]” (2).
Sento di fare mio l’appello che Umberto Galimberti rivolge ai giovani per invitarli ad innamorarsi e ad incuriosirsi di più di sé e a chiedersi qual’è la loro virtù e a interrogarsi sul significato che possa avere oggi l’antica esortazione di Pindaro: “Cosa dice la tua coscienza? Diventa ciò che sei !”.
Sant’Agostivo diceva: “Volo ut sis. Voglio che tu sia quello che sei”. Lo vogliamo anche noi per loro?
Ciascuno di noi ha la sua virtù. I greci la chiamavano daimon. La virtù di Achille era battere l’avversario in velocità, la virtù della terra è quella di generare, la virtù di Ella Jane Fitzgerald era cantare, visto che possedeva un’estensione vocale di più di tre ottave. Qual’è dunque la tua virtù? Conosci te stesso, individua la tua virtù, falla fiorire e a quel punto sarai felice perché ti sarai realizzato.
Se i giovani di oggi non si amano, non si innamorano della vita, non cercano di capire chi sono, noi adulti lo facciamo? Ci amiamo veramente? O l’amore verso noi stessi è condizionato, cioè costellato di tanti “se…”? E quale esempio può dare ad un giovane un adulto che non si è realizzato? Che non con conosce la felicità?
Amo la mia virtù o “mi amo solo se” sono bello? Efficiente? Perfetto? Intelligente? Mi amo “fintanto che” sono un uomo di successo? Autosufficiente? Forte? E altrimenti come mi considero? Come mi sento? Un incapace? Brutto? Un debole? Uno stupido o peggio, nel nostro tempo segnato dal mito dell’efficenza, un fallito?
Amarsi in senso pieno significa invece che “mi amo così come sono”. In che senso? Amo quello che di me è essenziale, la mia virtù, un’immagine che è depositata dentro di me e non un’immagine che di me mi sono fatto per essere come gli altri mi vogliono, per appartenere al branco o incarnare alcuni stereotipi condivisi del tempo in cui vivo. La mia immagine è dentro e non viene da fuori. Ed è un’immagine unica, perché è la mia!
Qual’è dunque il tuo demone? Ebbene se questo demone lo farai fiorire, raggiungerai la felicità (Eu-daimonia: buon-demone). Questo voleva dire per la saggezza antica, dalla quale il nostro pensiero occidentale proviene, fare evolvere la propria anima. Eudaimonia, per un greco, significa felicità nel senso di bene supremo, come espressione del “buon demone”.
James Hillman fa notare che “Spesso, nei primi anni di vita, persona e daimon sembrano essere un’unica e medesima cosa, con il bambino tutto preso dal genio, una confusione abbastanza comprensibile, visto che il bambino ha così poche forze sue e il daimon così tante. Allora il bambino viene additato come eccezionale, speciale, un bambino prodigio…ovvero, sull’altro versante, come un piantagrane, disfunzionale, un potenziale delinquente, da sottoporre a test e diagnosi, e da estirpare come erbacce” (3) .
Genio e follia, eccezionalità e patologia vanno spesso di pari passo come dimostrano le biografie di molti grandi donne e uomini dell’umanità. Accanto a “fragranti singolarità sintomatiche” (4) si può scorgere il “lampo della vocazione” (5), “un’immagine innata capace di conferire coerenza e significato ai pezzi sparsi della vita di ciascuno di noi” (6). E allora perché non proviamo a guardare i bambini avendo presente questa visione?
E perché non guardiamo allo stesso modo anche il nostro bambino interiore? Perché
“la maggior parte di noi viene educata all’amore condizionato. Se sei cresciuto con frasi del tipo – Ti voglio bene se porti a casa una bella pagella – , – Ti voglio bene se prendi il diploma di maturità – , – Dio come ti vorrei bene se potessi dire: mio figlio è un dottore”, allora sei stato educato all’idea che l’amore si possa comprare, che i tuoi genitori ti vorranno bene se diventerai quello che vogliono loro. In realtà finisci per diventare una prostituta. La prostituzione è il problema peggiore del mondo, a causa della parola “se”. Ci sono milioni di persone che farebbero qualsiasi cosa, pur di farsi amare dai propri genitori. Qualsiasi cosa. Sono quelle convinte che l’amore si possa comprare. E così se ne vanno in giro a far compere fino alla fine della vita, in cerca d’amore, ma non lo trovano mai. Perché il vero amore non si può comprare” (7).
Alle radici della nostra sofferenza, c’è un’offesa, qualcosa che è stato negato,
“che agli albori della vita è la violenza più devastante; una lacuna, un vuoto, la mancanza di un elemento essenziale […] per esempio la presenza costante e avvolgente di una figura materna che ti desse l’idea o l’illusione di essere sul serio l’ombelico del mondo o almeno del suo mondo […] Non una cicatrice, ma una ferita ancora aperta, non rimarginata […] È una ferita; ed è una feritoia, un minuscolo varco che ti consente di tenere d’occhio il tuo mondo interiore, di scrutare e indagare la parte più misteriosa e segreta di te stesso, la parte sommersa” (8).
Gran parte delle energie che abbiamo impegnato per crescere faticosamente sono state rivolte a cercare un modo per cercare di rimarginare questa ferita, per rispondere a questa domanda d’amore irrisolta, per far tacere il dolore, per anestetizzarci dal suo bruciore.
Ogni volta che incontriamo l’altro, l’amore, l’amato, la ferita si infiamma e torna ad ardere rivelandoci allo stesso tempo qualcosa di noi. L’invito “Medice, cura te ipsum” (medico cura te stesso) finisce per coincidere con il motto socratico “Nosce te ipsum” (conosci te stesso) perché:
“la distanza dal vostro dolore, dal vostro rimorso, dalle vostre ferite non curate, è la distanza che vi separa dal vostro compagno. E la distanza dal vostro compagno è la vostra distanza dalla verità vivente, dalla vostra stessa natura” (9).
Etty Hillesum il 30 settembre 1942 scrive sul suo diario:
“Essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente. […] a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a se stessi, a Dio, ai propri momenti migliori. E dovunque si è, esserci «al cento per cento». Il mio «fare» consisterà nell’«essere»! Soprattutto, devo essere più fedele a quel che vorrei chiamare il mio talento creativo, per modesto che sia” (10).
Essere fedeli a se stessi. Diventare se stessi anche per non correre il rischio di diventare qualcun altro, di omologarci, di comportarci secondo schemi, binari, copioni che non sono quelli scolpiti nella nostra anima, bensì tracciati come meandri o labirinti della nostra mente condizionata.
Esiste una differenza sostanziale tra archetipi e stereotipi.
Dunque la nostra ferita è anche la feritoia dalla quale possiamo capire chi siamo perché è da li che dobbiamo passare per accedere alla nostra essenza.
E in questo movimento non ci può aiutare nessuno, perché stiamo parlando della nostra vera identità che possiamo contattare pienamente solo attraversando il nostro dolore:
“[…] la maggior parte degli occidentali non capisce l’arte del dolore, e così vive ossessionata da mille paure. E la vita che vive la gente adesso non è più una vera vita, fatta com’è di paura, rassegnazione, odio, amarezza, disperazione […] ma se una vita simile viene tolta viene tolto poi molto? Si deve avere la forza di soffrire da soli, di non pesare sugli altri con le proprie paure e coi propri fardelli” (11).
È attraversando la ferita che possiamo varcare la feritoia attraverso la quale trovare noi stessi e comprendere di essere parte di qualcosa di più grande della nostra biografia ferita, di quel tessuto misterioso e miracoloso che tutte le tradizioni spirituali chiamano anima, intesa come interconnessione di tutte le cose, come relazione ordinata della vita, come unità amorosa di tutto ciò che c’è. È dalla ferita che si accede alla felicità.
Se ci amiamo veramente ci sarà difficile non ascoltare la nostra coscienza e non seguire il nostro daimon.
Questa è la lezione più importante che le persone devono imparare per Elisabeth Kubler Ross, una donna che per mestiere ha accompagnato bambini e adulti alla morte:
“È molto importante che facciate quello che amate. Magari sarete poveri, patirete la fame, dovrete vendere l’auto e traslocare in un appartamento più modesto, però vivrete totalmente. Alla fine dei vostri giorni benedirete la vostra vita perché avrete fatto quello per il quale siete stati creati. Altrimenti vivrete come prostitute, farete le cose per un unico motivo, compiacere gli altri, e così non avrete mai vissuto. E la vostra morte non sarà piacevole” (12).
È lo stesso invito alla felicità presente nel vangelo:
“Il Regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (13).
Gianluca Minella
NOTE:
- Umberto Galimberti, L’ospite inquietante, Feltrinelli 2008, pag. 13;
- Ibidem, pag.11;
- James Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi, 1997, pag. 48;
- Ibidem, pag. 49;
- Ibidem;
- Ibidem;
- Elisabeth Kubler-Ross, La morte è di vitale importanza, Armenia, 1997, pag 61-62;
- Aldo Carotenuto, Lettera a un aprrendista stregone, Bompiani, 2008, pag. 5;
- Stephen e Ondrea Levine, Abbracciando l’amore, Gruppo Futura 1997, pag. 4;
- Etty Hillesum, Diario (1941-1943), Milano, Adelphi, 1986, 30 settembre 1942;
- Ibidem, 1 giugno 1943;
- Elisabeth Kubler-Ross, La morte è di vitale importanza, Armenia, 1997, pag 61-62;
- Mt (13,24).