La solitudine dell’anima di Eugenio Borgna
Eugenio Borgna, nel suo ultimo libro “La Solitudine dell’anima” analizza il tema dell’isolamento in un mondo sempre più connesso. Separarsi temporaneamente dalle occupazioni quotidiane aiuta a farci rientrare nella nostra interiorità e a recuperare una dimensione creativa. Senza perdere la nostalgia degli altri.
È un riscatto della qualità della solitudine in un mondo ammaliato dal digitale, eccitato e oppresso dal perenne collegamento con tutto e con tutti. Non ha però un taglio sociologico, il suo nuovo libro, e tanto meno un odore nostalgico: piuttosto è radicalmente controcorrente. È un elogio della scelta libera di stare soli, senza la presenza costante degli altri, un’apologia di quella esperienza umana e psicologica che è precondizione di ogni pensiero critico e di ogni attività creativa.
“La solitudine, che non è isolamento, è una delle strutture portanti della vita; e ogni esperienza di solitudine ha una sua propria dimensione psicologica e umana”, pag. 19.
Cos’è per lei la solitudine e perché si differenzia dallo stato d’isolamento?
«Solitudine e isolamento sono due modi radicalmente diversi di vivere, anche se spesso vengono identificati. Essere soli non vuol dire sentirsi soli, ma separarsi temporaneamente dal mondo delle persone e delle cose, dalle quotidiane occupazioni, per rientrare nella propria interiorità e nella propria immaginazione – senza perdere il desiderio e la nostalgia della relazione con gli altri: con le persone amate, e con i compiti che la vita ci ha affidato. Siamo isolati invece quando ci chiudiamo in noi stessi, perché gli altri ci rifiutano o più spesso sulla scia della nostra stessa indifferenza, di un egoismo tetro che è l’effetto di un cuore arido o inaridito».
Perché la solitudine si nutre di silenzio e l’isolamento è impastato di mutismo?
«Perché nella solitudine, così ricca di vita interiore, il silenzio ha un suo eros e un suo proprio linguaggio: dice le nostre malinconie, le angosce, le speranze inespresse, i timori, le attese. Dice i nostri desideri più autentici. Il silenzio ha mille modi di manifestare qualcosa e di nasconderla, di indicare e di alludere, di avvicinarsi e di allontanarsi, di affascinare e di intimorire. Quando invece si è isolati, distaccati dal mondo, monadi dalle porte e dalle finestre chiuse, non si hanno pensieri ed emozioni da trasmettere agli altri. Senza più parole, si sprofonda in un mutismo che ha un’unica dimensione: quella dell’insignificanza».
Ma noi siamo immersi nell’era dell’incantamento per il digitale, dove l’intimità viene esteriorizzata attraverso i social network, probabilmente in fuga dal senso di vuoto che deriva dall’assenza di legami reali, certamente in grado di comunicare rapidamente con chiunque. Sarà ancora possibile recuperare il senso più prezioso della solitudine?
«Lei tocca un aspetto emblematico della condizione umana di oggi, e di quella giovanile in particolare: la tendenza ai contatti de-emozionalizzati che rispondono ai bisogni del momento e s’inceneriscono senza lasciare tracce nel cuore e nella memoria. Non c¿è dubbio che oggi la solitudine è sempre più difficile da salvare, e da vivere, perché siamo trascinati in un vortice di sensazioni esteriori che non ci danno più nemmeno il tempo per pensare a noi stessi, per confrontarci con i nostri segreti, con il manzoniano guazzabuglio delle emozioni che sono in noi, con le cose che non vorremmo ricordare e tornano alla memoria, con l’autenticità o l’inautenticità delle relazioni che abbiamo con gli altri: in fondo, con il mistero del vivere e del morire».
La solitudine – come lei l’intende – non è allora destinata ad essere la prerogativa di una minoranza di anime belle?
«No, perché la solitudine, come io l’intendo, non è solo un’esperienza interiore di pochi eletti, ma al contrario è una matrice ideale di cambiamento relazionale e culturale, politico e sociale, e in ultima istanza ragione di vita storicamente significativa. È indispensabile ritrovare i valori inalienabili della riflessione critica e della solidarietà, dell’impegno etico nella politica, del rispetto radicale delle persone, e delle loro differenze – trasferendo la coscienza di questi valori in quella che è l’azione quotidiana, la testimonianza personale di ciascuno di noi».
Alcune pagine iniziali del suo libro rievocano un film di Bergman del ’71: è “Sussurri e grida”. Perché le ha scritte?
«Perché quelle quattro donne vestite di bianco declinano i diversi linguaggi paradigmatici della solitudine. C’è Agnese, ormai divorata dalla malattia, che anche nelle ultime ore non perde nulla della sua sensibilità, mai è chiusa in se stessa ma aperta a un dialogo con la memoria e con l’attesa misteriosa della morte. Accanto a lei c’è Anna, una giovane donna capace di condividere quel destino come fosse il suo. Poi ci sono le due sorelle di Agnese – Karin e Maria – imprigionate invece in una solitudine che rappresenta l’isolamento più egocentrico, il deserto delle emozioni, l’indifferenza ghiacciata all’amore e alla solidarietà, in un’insana idolatria dell’io, del corpo, della bellezza».
“Tutta l’infelicità dell’uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo”: la solitudine dell’anima non si potrebbe riassumere in quest’aforisma di Pascal?
«Leggo Blaise Pascal dai tempi del liceo, eppure questa volta la folgorante incisività del suo pensiero non si è levata in volo dai quartieri della mia memoria. Sì, nell’aforisma pascaliano – che coglie la radicale dimensione esistenziale della solitudine: della fatica, e anzi dell’incapacità, di viverla – non si potrebbe riassumere meglio il senso trainante del mio libro. Mi spiace anche non aver citato una bella riflessione leopardiana, e lo faccio qui sintetizzando al massimo: la solitudine “ci ringiovanisce”».
intervista di Luciana Sica, “la Repubblica, 18/01/2011”
Eugenio Borgna, La solitudine dell’anima, Milano, Feltrinelli, 2011