Riprendere i sensi

Se consideriamo la meditazione come qualcosa di strumentale, come un’abilità che si sviluppa con l’esercizio, è molto sensato voler sapere se si sta «andando bene così»; e poi è vero che ci sono punti di riferimento lungo la via: un maggior senso di stabilità e calma nell’attenzione, la capacità di stare seduti più a lungo, un maggiore agio a stare «nella propria pelle», una visione più profonda, una maggiore equanimità di fronte a ciò che nasce, la capacità di andare incontro a tutto ciò che si presenta nel campo della consapevolezza proprio al punto di contatto, di constatare con un sorriso quanto prendiamo tutto sul serio, specie se riguarda le nostre personali identificazioni, i nostri personali attaccamenti.

È sensato chiedersi se la si sta facendo nel modo giusto. Ma quando nella mente vi nasce il pensiero e la domanda « Sto facendo giusto? » e genera dubbio o confusione c’è un’altra risposta da dare, una risposta che proviene dalla natura non strumentale della pratica meditativa, dal fatto che la meditazione non consiste nell’andare da qualche altra parte ma semplicemente nell’essere dove vi trovate già e saperlo.

Da questo punto di vista, se rimanete nella consapevolezza state andando bene qualunque cosa proviate, che sia piacevole spiacevole o neutra. Se vi annoiate e ne siete consapevoli state andando bene. Se siete spaventati e lo riconoscete, state andando bene. Se siete confusi e lo sapete, state andando bene.

La risposta proviene dalla natura non strumentale della pratica. Se siete depressi e lo sapete, state andando bene. Se di colpo prendete consapevolezza che la vostra fabbrica dei pensieri non chiude mai per ferie e invece di lasciarvi trascinare nell’agitazione riuscite a « essere la conoscenza stessa », allora state andando bene.

E se di fatto siete travolti dall’agitazione e dalla proliferazione dei pensieri e dalla loro fabbricazione e dal fragore di cascata della mente pensante e ne siete consapevoli, e riuscite a «essere quella conoscenza» in quel momento, allora state andando bene.

Non c’è niente che possiate fare o che vi possa capitare che non possa far parte della pratica a buon diritto. Di fatto non c’è niente che possiate fare o che vi possa capitare che non possa far parte della pratica a buon diritto, se ne siete consapevoli e riuscite ad abbandonarvi alla fiducia e a dimorare nella consapevolezza invece di restare perennemente intrappolati nella turbolenza, nell’agitazione, nell’attaccamento, nel desiderio, nel rifiuto di tutto ciò che si presenta.

La consapevolezza è sempre a nostra disposizione: non c’è un momento a cui la pratica non sia applicabile. Naturalmente in ogni momento dukkha e la tendenza a illuderci si possono aggravare seriamente, se perdiamo la consapevolezza e ci, lasciamo intrappolare nelle azioni maldestre e malsane che possono scaturire dal disagio, dalla paura o da altri stati mentali afflittivi, quando ci identifichiamo molto in loro senza rendercene conto.

È quando la consapevolezza viene offuscata e coperta dalle nuvole che possiamo perdere il contatto, perfino perdere la mente, dimenticare chi siamo nella nostra piena essenza, creare ostacoli al nostro stesso benessere, per non parlare della possibilità di far del male agli altri, a volte in maniera davvero pesante!

Anche in quelle circostanze, tuttavia, la consapevolezza è sempre a nostra disposizione: non c’è un momento a cui la pratica non sia applicabile. Ma è molto meglio se riusciamo a imparare a poco a poco a riconoscere, fra gli elementi che ci nascono nella mente e nelle azioni, quelli che sono potenzialmente distruttivi e nocivi e ad abbracciarli pienamente, in consapevolezza; nel momento in cui sorgono, decidendo di fare in modo che quel momento sia un nuovo inizio, una nuova opportunità di scegliere di astenerci da azioni nocive e distruttive e di restare saldi nella nostra vera essenza.

La consapevolezza di ognuno è uno spazio davvero ampio nel quale risiedere, uno spazio davvero ampio nel quale risiedere; non c’è momento in cui non sia un’alleata, un’amica, un santuario, un rifugio. E non è mai assente, solo che a volte è velata.

Conoscerla a fondo, comunque, è un lavoro sottile; il regno della consapevolezza richiede visite frequenti e numerose, anche se brevi: motivare allo scopo, sostenere, motivare, sostenere, motivare, sostenere. Se fai appello alla consapevolezza quando sei immerso nei dubbi, nell’infelicità, nella confusione, nell’ansia, nel dolore, questi stati mentali non sono più «tuoi»: sono solo condizioni meteorologiche del tuo corpo e della tua mente. Non si tratta, non si è mai trattato di «fare»; si tratta di essere.

Quella dimensione di «te» che sa già che dubiti, che sei infelice, che sei confuso, ansioso, risentito, che soffri, non è nessuna di queste cose e sta già bene, è già nella pienezza dell’essere. Non sarà mai altro da ciò che è, dalla persona che sei in realtà, al livello più essenziale.

E così, se ricordi la consapevolezza non giudicante nel momento presente come una possibilità e stai imparando a fidartene e vai a trovarla di tanto in tanto, a maggior ragione se vi prendi residenza per tempi più lunghi, allora non solo «stai facendo bene», ma in realtà non c’è nessun «fare» e non c’è mai stato, né c’è qualcuno che lo faccia. Non si tratta, non si è mai trattato di «fare»; si tratta di essere: essere il sapere, compreso il sapere di non sapere.

Che differenza c’è? Fermiamoci un attimo a meditare su questo fatto.

Jon Kabat-Zinn, Riprendere i sensi, TEA, 2008.