Rabbia: le sue sorprendenti funzioni.
In questo piccolo testo Marshall Rosemberg ci fa comprendere come la rabbia abbia una funzione importante e anzi fondamentale nella nostra vita.
La rabbia non è un’ emozione da reprimere, qualcosa di negativo di cui vergognarsi ma anzi da vedere come un dono, come un segnale importante che sta ad indicare che un nostro bisogno è stato violato.
Un testo che consiglio di leggere attentamente, un piccolo manuale di “comunicazione” e di “intelligenza emotiva”.
Rosemberg è abbastanza critico con l’atteggiamento di chi incoraggia a dare sfogo alla rabbia, a gridare, urlare, battere pugni sul cuscino senza poi capire le ragioni che stanno alla base della rabbia per trasformarla.
Se ci rapportiamo con la nostra “rabbia” negandola o reprimendola finiremo con esprimerla in modi molto pericolosi per noi stessi e per gli altri, come quel serial killer che al dire dei suoi conoscenti “era un uomo buono”, “sembrava una persona così gentile”, un uomo che “non aveva mai alzato la voce con nessuno e non sembrava mai arrabbiato con nessuno”.
Nel modello di “Comunicazione non violenta” ideato da Marshall Rosemberg ogni sentimento è l’espressione di un bisogno. Quando i nostri bisogni sono soddisfatti i sentimenti che scaturiranno saranno di gioia, pace e soddisfazione; quando sono insoddisfatti sperimenteremo al contrario sentimenti di paura, rabbia e tristezza.
Lo stimolo della rabbia non è la sua causa
Il primo passo per saper affrontare in modo adeguato la rabbia è diventare consapevoli che “lo stimolo che scatena la nostra rabbia non ne è la causa”.
Più specificatamente “non è quello che gli altri fanno che ci fa arrabbiare, ma la vera causa della rabbia riguarda il modo in cui noi reagiamo al comportamento altrui. Questa consapevolezza ci richiede di saper distinguere lo stimolo dalla causa”.
Il secondo passo è diventare consapevoli che la causa della nostra rabbia “è una particolare valutazione che diamo a ciò che è stato fatto”, nel senso che quello che ci capita non viene collegato ai nostri bisogni o a quelli degli altri, ma giudicato in senso moralistico.
Invece che collegarci al nostro al nostro “mondo interno”, alla vita che scorre dentro di noi, ai nostri sentimenti e bisogni, “pensiamo” che gli altri “si sono comportati male”, che “sono stati cattivi” o che “siano in torto”.
La base della rabbia è “pensare che gli altri abbiano sbagliato comportandosi in un certo modo”.
Quando ci sentiamo arrabbiati, possiamo invece rivolgerci a noi stessi dicendo “Mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che …” cercando cioè di scoprire quale nostro pensiero sta causando la nostra rabbia.
Esempio. Un detenuto di un carcere svedese rivelò a Rosemberg di essere molto arrabbiato con la direzione perché non avevano ancora risposto ad una sua richiesta da tre settimane. Allora Rosemberg gli chiese di guardarsi dentro e di capire qual’era la causa della sua rabbia. Il detenuto gli disse che era arrabbiato, come avaveva già detto, perché la direzione non aveva ancora risposto.
“Quello che mi ha detto è lo stimolo della sua rabbia. Nel corso dei nostri precedenti incontri ho cercato di spiegare che lo stimolo, di per sé, non è mai la causa della nostra rabbia. Ora stiamo cercando di capirne la causa. Quindi vorrei che mi dicesse in che modo sta interpretando il comportamento della direzione, perché, la causa della rabbia, deriva dal modo in cui sta analizzando la situazione” (pag. 20).
Quindi Rosemberg aiutò il detenuto a fare chiarezza dentro di sé, a fermarsi per ascoltare i pensieri che gli “frullavano nella testa”, ad osservare il dialogo interno alla radice della rabbia. Aveva svariati “giudizi” che gli “giravano per la testa, pensieri che coltivava del tipo “non è giusto”, “questo non è il modo di trattare una persona”, “sono ingiusti”, “non mi trattano bene”.
Tutti questi pensieri provocavano la sua rabbia.
È molto importante distinguere lo stimolo (La direzione del carcere non risponde da tre settimane alla richiesta del detenuto) dalla causa (sono ingiusti, non mi trattano bene) che è quello che ci raccontiamo nella nostra testa, il contenuto del nostro dialogo interno.
Ho constatato che è molto utile scrivere le frasi del proprio dialogo interno su dei fogli. Questo aiuta ad osservare meglio i pensieri e a guardarli in modo più dis-identificato. Se poi associamo a queste frasi anche un disegno istintivo, possiamo ottenere anche qualche informazione in più circa la natura opprimente di tali pensieri.
È molto difficile distinguere lo stimolo dalla causa della nostra rabbia, perché nel mondo in cui viviamo “siamo stati educati generalmente da persone che, per motivarci a fare le cose, hanno spesso utilizzato il senso di colpa”.
Il senso di colpa è uno strumento ideale per manipolare gli altri: “Se vogliamo far sentire in colpa qualcuno, abbiamo bisogno di comunicare in un modo che indica che il nostro dolore è causato dal suo comportamento; gli facciamo credere che il suo comportamento non è semplicemente lo stimolo dei nostri sentimenti ma ne è la causa”.
Se un genitore vuole fare sentire in colpa suo figlio potrebbe dirgli: “Quando non metti in ordine la camera mi fai arrabbiare!”.
“Quando esci con gli amici la sera mi fai arrabbiare” è la tipica frase che una ragazza dice al suo fidanzato se vuole farlo sentire in colpa e quindi per manipolarlo.
Attribuire un nostro sentimento ad una causa esterna è un’operazione “ipnotica” e manipolativa che ci paralizza perché ci toglie ogni possibilità di reagire. Quando “riceviamo” frasi di questo tipo ci sentiamo paralizzati e in colpa per essere noi la causa dello stato d’animo di chi ci sta intorno.
Non confondiamo quindi lo stimolo dalla causa della nostra rabbia.
Se vogliamo “svegliarci” è importante diventare consapevoli della relazione causale tra i nostri pensieri, giudizi e valutazioni e la nostra rabbia. Quello che capita fuori di noi non è che lo stimolo.
Il passaggio fondamentale è affermare che “mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che l’altra persona sta sbagliando quando si comporta in un certo modo”.
Questi pensieri posso essere giudizi diretti, “penso che questa persona sia pigra, egoista, scortese, che stia cercando di manipolarmi” oppure giudizi indiretti del tipo “Ma chi si crede di essere?
Crede di essere l’unica ad aver qualcosa da dire?”. In questo caso stiamo pensando che questa persona sta agendo comunque in modo sbagliato. La stiamo giudicando.
“La causa dei nostri sentimenti non è mai quello che l’altra persona fa, ma il modo in cui lo interpretiamo […] quello che crea la nostra rabbia è il modo in cui interpretiamo la situazione”(Pag. 23-24).
Se A (per esempio un comportamento) =>(Determina) C (La rabbia che sento)
può essere utile dare un volto a B. Ebbene il volto di B sono i pensieri, le valutazioni e soprattutto i giudizi morali che esprimiamo sullo stimolo A
A (Stimolo: un comportamento) => B (Causa: giudico quel comportamento oppure la persona che ha agito quel comportamento) => C (Provo rabbia)
Nel passaggio fra lo stimolo (A) e la rabbia (C) c’è sempre un processo mentale (B) che può riguardare un giudizio morale, una valutazione o interpretazione di (A).
Esempio. Rosemberg parla di due episodi simili che hanno provocato in lui reazioni e sentimenti molto diversi. In entrambi i casi era stato colpito al naso con una gomitata da due ragazzini, per due giorni di seguito, nell’intromettersi per fermare una lite. Il primo giorno fu arrabbiatissimo, mentre il secondo, anche se il dolore al naso era stato maggione, non si arrabbiò affatto. Qual’era la variabile? Perché due reazioni così diverse ad uno stimolo uguale? Nell’analizzare i due episodi si accorse che mentre nel primo caso aveva formulato dei giudizi “negativi” sul ragazzino, valutandolo un” insopportabile ragazzino viziato”, nel secondo caso il suo atteggiamento non fu giudicante perché vide il secondo ragazzo come una creatura indifesa e lo valutò come “bisognoso di aiuto”.
Giudizi come bisogni insoddisfatti
Il completamento del processo di riconoscimento della rabbia consiste nel cogliere il “bisogno” che sta alla base, alla radice della nostra rabbia. In fondo “i giudizi che diamo sugli altri, che causano la nostra rabbia, sono in realtà un modo alienato di esprimere i nostri bisogni non soddisfatti”(Pag. 27).
I giudizi sono espressione di bisogni insoddisfatti.
Qui risulta importante una specificazione. Giudicare è un’attività per noi vitale. Ogni volta che facciamo un’esperienza la valutiamo in base ai nostri valori che costituiscono un riferimento per noi importante in quanto sono l’ossatura della nostra mappa del mondo.
Rosemberg si riferisce ai quei particolari giudizi che hanno una connotazione non tanto etico-morale, quanto “moralistica” e che tendono a inserire la persona in una categoria stabile, rigida, ingessata e che si è “scollegata” dalla vita vera che è il flusso costante dei sentimenti e dei bisogni che ci anima. Affermare che un ragazzo “è pigro” vuol dire etichettarlo, giudicarlo, farsi su di lui un idea e un pensiero che non rende giustizia all’interezza e alla complessità di un essere umano.
Può essere utile forse fare una distinzione terminologica tra giudizio e discernimento, ma stiamo utilizzando sempre categorie del nostro linguaggio.
Rosemberg è più interessato al linguaggio dei sentimenti e dei bisogni e mette spesso in luce il fatto che nel mondo in cui siamo stati educati siamo diventati più abili ad utilizzare la logica, le categorie e i concetti piuttosto che le emozioni e i sentimenti.
Cosa si agita dentro di noi?
Il primo suggerimento è quello di ampliare il nostro vocabolario di sentimenti e di bisogni perché spesso non abbiamo proprio le parole per esprimere quello che sentiamo, i termini adeguati per riconoscere cosa si “muove” nostro mondo interno.
Quando siamo arrabbiati è allora importante entrare in empatia con noi stessi, sentire tutta la nostra rabbia e chiedersi con onestà “quale pensiero, giudizio o valutazione” stiamo producendo nei confronti della persona o della situazione che ci fa arrabbiare.
Poi possiamo entrare in contatto con il bisogno che sta dietro quel giudizio e a quel punto la rabbia si trasformerà in altri sentimenti che ci porteranno a fare una richiesta ancorata ai nostri reali sentimenti e bisogni.
Nel caso del detenuto di cui si parla in questo libro, dopo aver riconosciuto l’origine della rabbia, si recò in direzione e disse: “Vi ho fatto una rischesta tre settimana fa, ma non ho ancora avuto risposta.
Mi sento spaventato perché ho bisogno di potermi mantenere quando lascerò il carcere e temo che, se non potrò seguire i corsi che ho richiesto, sarà molto difficile per me trovare lavoro. Quindi vorrei che mi diceste cosa vi impedisce di rispondere alla mia richiesta”.
In questo piccolo testo Marshall Rosemberg ci fa comprendere come la rabbia abbia una funzione importante e anzi fondamentale nella nostra vita.
La rabbia non è un’ emozione da reprimere, qualcosa di negativo di cui vergognarsi ma anzi da vedere come un dono, come un segnale importante che sta ad indicare che un nostro bisogno è stato violato.
Un testo che consiglio di leggere attentamente, un piccolo manuale di “comunicazione” e di “intelligenza emotiva”.
Rosemberg è abbastanza critico con l’atteggiamento di chi incoraggia a dare sfogo alla rabbia, a gridare, urlare, battere pugni sul cuscino senza poi capire le ragioni che stanno alla base della rabbia per trasformarla.
Se ci rapportiamo con la nostra “rabbia” negandola o reprimendola finiremo con esprimerla in modi molto pericolosi per noi stessi e per gli altri, come quel serial killer che al dire dei suoi conoscenti “era un uomo buono”, “sembrava una persona così gentile”, un uomo che “non aveva mai alzato la voce con nessuno e non sembrava mai arrabbiato con nessuno”.
Nel modello di “Comunicazione non violenta” ideato da Marshall Rosemberg ogni sentimento è l’espressione di un bisogno. Quando i nostri bisogni sono soddisfatti i sentimenti che scaturiranno saranno di gioia, pace e soddisfazione; quando sono insoddisfatti sperimenteremo al contrario sentimenti di paura, rabbia e tristezza.
Lo stimolo della rabbia non è la sua causa
Il primo passo per saper affrontare in modo adeguato la rabbia è diventare consapevoli che “lo stimolo che scatena la nostra rabbia non ne è la causa”.
Più specificatamente “non è quello che gli altri fanno che ci fa arrabbiare, ma la vera causa della rabbia riguarda il modo in cui noi reagiamo al comportamento altrui. Questa consapevolezza ci richiede di saper distinguere lo stimolo dalla causa”.
Il secondo passo è diventare consapevoli che la causa della nostra rabbia “è una particolare valutazione che diamo a ciò che è stato fatto”, nel senso che quello che ci capita non viene collegato ai nostri bisogni o a quelli degli altri, ma giudicato in senso moralistico.
Invece che collegarci al nostro al nostro “mondo interno”, alla vita che scorre dentro di noi, ai nostri sentimenti e bisogni, “pensiamo” che gli altri “si sono comportati male”, che “sono stati cattivi” o che “siano in torto”.
La base della rabbia è “pensare che gli altri abbiano sbagliato comportandosi in un certo modo”.
Quando ci sentiamo arrabbiati, possiamo invece rivolgerci a noi stessi dicendo “Mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che …” cercando cioè di scoprire quale nostro pensiero sta causando la nostra rabbia.
Esempio. Un detenuto di un carcere svedese rivelò a Rosemberg di essere molto arrabbiato con la direzione perché non avevano ancora risposto ad una sua richiesta da tre settimane. Allora Rosemberg gli chiese di guardarsi dentro e di capire qual’era la causa della sua rabbia. Il detenuto gli disse che era arrabbiato, come avaveva già detto, perché la direzione non aveva ancora risposto.
“Quello che mi ha detto è lo stimolo della sua rabbia. Nel corso dei nostri precedenti incontri ho cercato di spiegare che lo stimolo, di per sé, non è mai la causa della nostra rabbia. Ora stiamo cercando di capirne la causa. Quindi vorrei che mi dicesse in che modo sta interpretando il comportamento della direzione, perché, la causa della rabbia, deriva dal modo in cui sta analizzando la situazione” (pag. 20).
Quindi Rosemberg aiutò il detenuto a fare chiarezza dentro di sé, a fermarsi per ascoltare i pensieri che gli “frullavano nella testa”, ad osservare il dialogo interno alla radice della rabbia. Aveva svariati “giudizi” che gli “giravano per la testa, pensieri che coltivava del tipo “non è giusto”, “questo non è il modo di trattare una persona”, “sono ingiusti”, “non mi trattano bene”.
Tutti questi pensieri provocavano la sua rabbia.
È molto importante distinguere lo stimolo (La direzione del carcere non risponde da tre settimane alla richiesta del detenuto) dalla causa (sono ingiusti, non mi trattano bene) che è quello che ci raccontiamo nella nostra testa, il contenuto del nostro dialogo interno.
Ho constatato che è molto utile scrivere le frasi del proprio dialogo interno su dei fogli. Questo aiuta ad osservare meglio i pensieri e a guardarli in modo più dis-identificato. Se poi associamo a queste frasi anche un disegno istintivo, possiamo ottenere anche qualche informazione in più circa la natura opprimente di tali pensieri.
È molto difficile distinguere lo stimolo dalla causa della nostra rabbia, perché nel mondo in cui viviamo “siamo stati educati generalmente da persone che, per motivarci a fare le cose, hanno spesso utilizzato il senso di colpa”.
Il senso di colpa è uno strumento ideale per manipolare gli altri: “Se vogliamo far sentire in colpa qualcuno, abbiamo bisogno di comunicare in un modo che indica che il nostro dolore è causato dal suo comportamento; gli facciamo credere che il suo comportamento non è semplicemente lo stimolo dei nostri sentimenti ma ne è la causa”.
Se un genitore vuole fare sentire in colpa suo figlio potrebbe dirgli: “Quando non metti in ordine la camera mi fai arrabbiare!”.
“Quando esci con gli amici la sera mi fai arrabbiare” è la tipica frase che una ragazza dice al suo fidanzato se vuole farlo sentire in colpa e quindi per manipolarlo.
Attribuire un nostro sentimento ad una causa esterna è un’operazione “ipnotica” e manipolativa che ci paralizza perché ci toglie ogni possibilità di reagire. Quando “riceviamo” frasi di questo tipo ci sentiamo paralizzati e in colpa per essere noi la causa dello stato d’animo di chi ci sta intorno.
Non confondiamo quindi lo stimolo dalla causa della nostra rabbia.
Se vogliamo “svegliarci” è importante diventare consapevoli della relazione causale tra i nostri pensieri, giudizi e valutazioni e la nostra rabbia. Quello che capita fuori di noi non è che lo stimolo.
Il passaggio fondamentale è affermare che “mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che l’altra persona sta sbagliando quando si comporta in un certo modo”.
Questi pensieri posso essere giudizi diretti, “penso che questa persona sia pigra, egoista, scortese, che stia cercando di manipolarmi” oppure giudizi indiretti del tipo “Ma chi si crede di essere?
Crede di essere l’unica ad aver qualcosa da dire?”. In questo caso stiamo pensando che questa persona sta agendo comunque in modo sbagliato. La stiamo giudicando.
“La causa dei nostri sentimenti non è mai quello che l’altra persona fa, ma il modo in cui lo interpretiamo […] quello che crea la nostra rabbia è il modo in cui interpretiamo la situazione”(Pag. 23-24).
Se A (per esempio un comportamento) =>(Determina) C (La rabbia che sento)
può essere utile dare un volto a B. Ebbene il volto di B sono i pensieri, le valutazioni e soprattutto i giudizi morali che esprimiamo sullo stimolo A
A (Stimolo: un comportamento) => B (Causa: giudico quel comportamento oppure la persona che ha agito quel comportamento) => C (Provo rabbia)
Nel passaggio fra lo stimolo (A) e la rabbia (C) c’è sempre un processo mentale (B) che può riguardare un giudizio morale, una valutazione o interpretazione di (A).
Esempio. Rosemberg parla di due episodi simili che hanno provocato in lui reazioni e sentimenti molto diversi. In entrambi i casi era stato colpito al naso con una gomitata da due ragazzini, per due giorni di seguito, nell’intromettersi per fermare una lite. Il primo giorno fu arrabbiatissimo, mentre il secondo, anche se il dolore al naso era stato maggione, non si arrabbiò affatto. Qual’era la variabile? Perché due reazioni così diverse ad uno stimolo uguale? Nell’analizzare i due episodi si accorse che mentre nel primo caso aveva formulato dei giudizi “negativi” sul ragazzino, valutandolo un” insopportabile ragazzino viziato”, nel secondo caso il suo atteggiamento non fu giudicante perché vide il secondo ragazzo come una creatura indifesa e lo valutò come “bisognoso di aiuto”.
Giudizi come bisogni insoddisfatti
Il completamento del processo di riconoscimento della rabbia consiste nel cogliere il “bisogno” che sta alla base, alla radice della nostra rabbia. In fondo “i giudizi che diamo sugli altri, che causano la nostra rabbia, sono in realtà un modo alienato di esprimere i nostri bisogni non soddisfatti”(Pag. 27).
I giudizi sono espressione di bisogni insoddisfatti.
Qui risulta importante una specificazione. Giudicare è un’attività per noi vitale. Ogni volta che facciamo un’esperienza la valutiamo in base ai nostri valori che costituiscono un riferimento per noi importante in quanto sono l’ossatura della nostra mappa del mondo.
Rosemberg si riferisce ai quei particolari giudizi che hanno una connotazione non tanto etico-morale, quanto “moralistica” e che tendono a inserire la persona in una categoria stabile, rigida, ingessata e che si è “scollegata” dalla vita vera che è il flusso costante dei sentimenti e dei bisogni che ci anima. Affermare che un ragazzo “è pigro” vuol dire etichettarlo, giudicarlo, farsi su di lui un idea e un pensiero che non rende giustizia all’interezza e alla complessità di un essere umano.
Può essere utile forse fare una distinzione terminologica tra giudizio e discernimento, ma stiamo utilizzando sempre categorie del nostro linguaggio.
Rosemberg è più interessato al linguaggio dei sentimenti e dei bisogni e mette spesso in luce il fatto che nel mondo in cui siamo stati educati siamo diventati più abili ad utilizzare la logica, le categorie e i concetti piuttosto che le emozioni e i sentimenti.
In questo piccolo testo Marshall Rosemberg ci fa comprendere come la rabbia abbia una funzione importante e anzi fondamentale nella nostra vita.
La rabbia non è un’ emozione da reprimere, qualcosa di negativo di cui vergognarsi ma anzi da vedere come un dono, come un segnale importante che sta ad indicare che un nostro bisogno è stato violato.
Un testo che consiglio di leggere attentamente, un piccolo manuale di “comunicazione” e di “intelligenza emotiva”.
Rosemberg è abbastanza critico con l’atteggiamento di chi incoraggia a dare sfogo alla rabbia, a gridare, urlare, battere pugni sul cuscino senza poi capire le ragioni che stanno alla base della rabbia per trasformarla.
Se ci rapportiamo con la nostra “rabbia” negandola o reprimendola finiremo con esprimerla in modi molto pericolosi per noi stessi e per gli altri, come quel serial killer che al dire dei suoi conoscenti “era un uomo buono”, “sembrava una persona così gentile”, un uomo che “non aveva mai alzato la voce con nessuno e non sembrava mai arrabbiato con nessuno”.
Nel modello di “Comunicazione non violenta” ideato da Marshall Rosemberg ogni sentimento è l’espressione di un bisogno. Quando i nostri bisogni sono soddisfatti i sentimenti che scaturiranno saranno di gioia, pace e soddisfazione; quando sono insoddisfatti sperimenteremo al contrario sentimenti di paura, rabbia e tristezza.
Lo stimolo della rabbia non è la sua causa
Il primo passo per saper affrontare in modo adeguato la rabbia è diventare consapevoli che “lo stimolo che scatena la nostra rabbia non ne è la causa”.
Più specificatamente “non è quello che gli altri fanno che ci fa arrabbiare, ma la vera causa della rabbia riguarda il modo in cui noi reagiamo al comportamento altrui. Questa consapevolezza ci richiede di saper distinguere lo stimolo dalla causa”.
Il secondo passo è diventare consapevoli che la causa della nostra rabbia “è una particolare valutazione che diamo a ciò che è stato fatto”, nel senso che quello che ci capita non viene collegato ai nostri bisogni o a quelli degli altri, ma giudicato in senso moralistico.
Invece che collegarci al nostro al nostro “mondo interno”, alla vita che scorre dentro di noi, ai nostri sentimenti e bisogni, “pensiamo” che gli altri “si sono comportati male”, che “sono stati cattivi” o che “siano in torto”.
La base della rabbia è “pensare che gli altri abbiano sbagliato comportandosi in un certo modo”.
Quando ci sentiamo arrabbiati, possiamo invece rivolgerci a noi stessi dicendo “Mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che …” cercando cioè di scoprire quale nostro pensiero sta causando la nostra rabbia.
Esempio. Un detenuto di un carcere svedese rivelò a Rosemberg di essere molto arrabbiato con la direzione perché non avevano ancora risposto ad una sua richiesta da tre settimane. Allora Rosemberg gli chiese di guardarsi dentro e di capire qual’era la causa della sua rabbia. Il detenuto gli disse che era arrabbiato, come avaveva già detto, perché la direzione non aveva ancora risposto.
“Quello che mi ha detto è lo stimolo della sua rabbia. Nel corso dei nostri precedenti incontri ho cercato di spiegare che lo stimolo, di per sé, non è mai la causa della nostra rabbia. Ora stiamo cercando di capirne la causa. Quindi vorrei che mi dicesse in che modo sta interpretando il comportamento della direzione, perché, la causa della rabbia, deriva dal modo in cui sta analizzando la situazione” (pag. 20).
Quindi Rosemberg aiutò il detenuto a fare chiarezza dentro di sé, a fermarsi per ascoltare i pensieri che gli “frullavano nella testa”, ad osservare il dialogo interno alla radice della rabbia. Aveva svariati “giudizi” che gli “giravano per la testa, pensieri che coltivava del tipo “non è giusto”, “questo non è il modo di trattare una persona”, “sono ingiusti”, “non mi trattano bene”.
Tutti questi pensieri provocavano la sua rabbia.
È molto importante distinguere lo stimolo (La direzione del carcere non risponde da tre settimane alla richiesta del detenuto) dalla causa (sono ingiusti, non mi trattano bene) che è quello che ci raccontiamo nella nostra testa, il contenuto del nostro dialogo interno.
Ho constatato che è molto utile scrivere le frasi del proprio dialogo interno su dei fogli. Questo aiuta ad osservare meglio i pensieri e a guardarli in modo più dis-identificato. Se poi associamo a queste frasi anche un disegno istintivo, possiamo ottenere anche qualche informazione in più circa la natura opprimente di tali pensieri.
È molto difficile distinguere lo stimolo dalla causa della nostra rabbia, perché nel mondo in cui viviamo “siamo stati educati generalmente da persone che, per motivarci a fare le cose, hanno spesso utilizzato il senso di colpa”.
Il senso di colpa è uno strumento ideale per manipolare gli altri: “Se vogliamo far sentire in colpa qualcuno, abbiamo bisogno di comunicare in un modo che indica che il nostro dolore è causato dal suo comportamento; gli facciamo credere che il suo comportamento non è semplicemente lo stimolo dei nostri sentimenti ma ne è la causa”.
Se un genitore vuole fare sentire in colpa suo figlio potrebbe dirgli: “Quando non metti in ordine la camera mi fai arrabbiare!”.
“Quando esci con gli amici la sera mi fai arrabbiare” è la tipica frase che una ragazza dice al suo fidanzato se vuole farlo sentire in colpa e quindi per manipolarlo.
Attribuire un nostro sentimento ad una causa esterna è un’operazione “ipnotica” e manipolativa che ci paralizza perché ci toglie ogni possibilità di reagire. Quando “riceviamo” frasi di questo tipo ci sentiamo paralizzati e in colpa per essere noi la causa dello stato d’animo di chi ci sta intorno.
Non confondiamo quindi lo stimolo dalla causa della nostra rabbia.
Se vogliamo “svegliarci” è importante diventare consapevoli della relazione causale tra i nostri pensieri, giudizi e valutazioni e la nostra rabbia. Quello che capita fuori di noi non è che lo stimolo.
Il passaggio fondamentale è affermare che “mi sento arrabbiato perché sto dicendo a me stesso che l’altra persona sta sbagliando quando si comporta in un certo modo”.
Questi pensieri posso essere giudizi diretti, “penso che questa persona sia pigra, egoista, scortese, che stia cercando di manipolarmi” oppure giudizi indiretti del tipo “Ma chi si crede di essere?
Crede di essere l’unica ad aver qualcosa da dire?”. In questo caso stiamo pensando che questa persona sta agendo comunque in modo sbagliato. La stiamo giudicando.
“La causa dei nostri sentimenti non è mai quello che l’altra persona fa, ma il modo in cui lo interpretiamo […] quello che crea la nostra rabbia è il modo in cui interpretiamo la situazione”(Pag. 23-24).
Se A (per esempio un comportamento) =>(Determina) C (La rabbia che sento)
può essere utile dare un volto a B. Ebbene il volto di B sono i pensieri, le valutazioni e soprattutto i giudizi morali che esprimiamo sullo stimolo A
A (Stimolo: un comportamento) => B (Causa: giudico quel comportamento oppure la persona che ha agito quel comportamento) => C (Provo rabbia)
Nel passaggio fra lo stimolo (A) e la rabbia (C) c’è sempre un processo mentale (B) che può riguardare un giudizio morale, una valutazione o interpretazione di (A).
Esempio. Rosemberg parla di due episodi simili che hanno provocato in lui reazioni e sentimenti molto diversi. In entrambi i casi era stato colpito al naso con una gomitata da due ragazzini, per due giorni di seguito, nell’intromettersi per fermare una lite. Il primo giorno fu arrabbiatissimo, mentre il secondo, anche se il dolore al naso era stato maggione, non si arrabbiò affatto. Qual’era la variabile? Perché due reazioni così diverse ad uno stimolo uguale? Nell’analizzare i due episodi si accorse che mentre nel primo caso aveva formulato dei giudizi “negativi” sul ragazzino, valutandolo un” insopportabile ragazzino viziato”, nel secondo caso il suo atteggiamento non fu giudicante perché vide il secondo ragazzo come una creatura indifesa e lo valutò come “bisognoso di aiuto”.
Giudizi come bisogni insoddisfatti
Il completamento del processo di riconoscimento della rabbia consiste nel cogliere il “bisogno” che sta alla base, alla radice della nostra rabbia. In fondo “i giudizi che diamo sugli altri, che causano la nostra rabbia, sono in realtà un modo alienato di esprimere i nostri bisogni non soddisfatti”(Pag. 27).
I giudizi sono espressione di bisogni insoddisfatti.
Qui risulta importante una specificazione. Giudicare è un’attività per noi vitale. Ogni volta che facciamo un’esperienza la valutiamo in base ai nostri valori che costituiscono un riferimento per noi importante in quanto sono l’ossatura della nostra mappa del mondo.
Rosemberg si riferisce ai quei particolari giudizi che hanno una connotazione non tanto etico-morale, quanto “moralistica” e che tendono a inserire la persona in una categoria stabile, rigida, ingessata e che si è “scollegata” dalla vita vera che è il flusso costante dei sentimenti e dei bisogni che ci anima. Affermare che un ragazzo “è pigro” vuol dire etichettarlo, giudicarlo, farsi su di lui un idea e un pensiero che non rende giustizia all’interezza e alla complessità di un essere umano.
Può essere utile forse fare una distinzione terminologica tra giudizio e discernimento, ma stiamo utilizzando sempre categorie del nostro linguaggio.
Rosemberg è più interessato al linguaggio dei sentimenti e dei bisogni e mette spesso in luce il fatto che nel mondo in cui siamo stati educati siamo diventati più abili ad utilizzare la logica, le categorie e i concetti piuttosto che le emozioni e i sentimenti.
Una delle più pericolose conseguenze della rabbia
Una delle più pericolose conseguenze della rabbia è il desiderio di punizione e di vendetta.
Lo stesso modo di pensare che ci fa arrabbiare (ricordiamo che non è lo stimolo ma cosa ci diciamo della nostra testa che ci fa arrabbiare) è lo stesso che ci porta a pensare di voler punire gli altri, perché le persone meritano di soffrire per quello che hanno fatto.
Alla radice del nostro desiderio di punizione, perché gli altri sono “in torto”, “inopportuni”, “irresponsabili”, c’è la convinzione che gli altri avrebbero dovuto comportarsi diversamente, che non avrebbero dovuto fare quello che hanno fatto.
Ebbene “la punizione non ci può mai portare a soddisfare i nostri bisogni in modo costruttivo”. Ogni pensiero o frase che ripetiamo nella nostra testa che contiene la parola “dovere” genera violenza.
Uccidere, incolpare, ferire, punire e vendicarsi sono modi alienati per esprimere i nostri bisogni. In ultima analisi un modo distorto per chiedere “empatia”.
Il bisogno di contatto e di empatia è il bisogno fondamentale di ogni essere umano.
“Quando pensiamo di voler ferire gli altri, quello di cui abbiamo davvero bisogno è che queste persone vedano quanto siamo feriti e capiscano in che modo il loro comportamento ha contribuito al nostro dolore”.
Marshall Rosemberg, Le sorprendenti funzioni della rabbia, Esserci, 2006.