Le fiabe di trasformazione e l’addomesticamento del mondo infero.

“Nella notte non fantasmi altre le luminescenze, voci lontanesempre presenti”.

Le fiabe fanno bene, raccontano di principi e principesse trasformati in animali da un misterioso incantesimo che solo la forza dell’amore potrà sciogliere. Il fine di queste storie è la liberazione del mondo infero, nascosto dentro di noi: senza il mondo sotterraneo, che raccoglie fantasmi e paure antiche, desideri primitivi e sogni senza tempo, nessuna realizzazione è possibile. La fiaba si muove allora nei territori del fantastico? Fatichiamo, pur amandola, a riconoscere al suo interno i riflessi e i tratti della realtà. Regno del “meraviglioso puro”, il fiabesco è attraversato dal reale da cui riceve solo quei connotati superficiali che non intaccano la sua natura, perché nella fiaba è in gioco la verità del mondo “altro”, che sta sotto la realtà.

Mentre il sapere scientifico ci serve per sopravvivere (pedagogia del giorno?), il sapere narrativo ci serve per vivere. In particolare la fiaba, anticipando la sceneggiatura della nostra vita interiore si fa fondamento della fiducia nel sapere narrativo. La “pedagogia della notte” non insegna solo le regole per domare le ombre e le paure, ma segna la via e offre i codici che permettono di attraversare abbandoni e separazioni, non uscendo semplicemente indenni, né infantilmente felici, ma consapevoli della generatività della vita. In ogni notte un racconto ci aspetta.

“Avete voi sentito dietro il boschetto la voce notturna del cantore dell ‘amore, del cantore della tristezza?” (Puskin).

Da dove nascono i racconti? Quando si è cominciato a raccontare? Qual è l’origine della parola, del mito, della fiaba?

Per Propp all’origine c’è il mito, la fiaba nasce solo quando i miti perdono il loro potere religioso e il loro peso sociale e la parola non sembra più capace di spiegare tutto il mondo. Per Levi Strauss invece mito e fiaba coesistono e sono complementari: il mito racconta l’unità del mondo e in essa supera ogni opposizione, la fiaba invece ordina il mondo piccolo, più intimo, domestico e segreto insieme, dove si compongono i conflitti dell’interiorità, le sue metamorfosi e le sue maturazioni, il concreto farsi di ogni iniziazione.  Mito e fiaba sfruttano una sostanza comune, anche se le fiabe sono costruite su opposizioni più “deboli” di quelle che si incontrano nei miti, non cosmologiche, non metafisiche o naturali.

Mito e fiaba sono incarnazioni della parola nella notte.

Se non ci fosse stata una notte, nessuno avrebbe mai raccontato. Nelle tenebre si racconta, alle tenebre si racconta, quasi che l’oscurità medesima debba essere illuminata sulla propria essenza. Perché ci sia un racconto ci deve essere una notte da illuminare. Forse per questo i grandi narratori delle origini sono ciechi, come Omero o come Ogotemmeli, il narratore della straordinaria mitologia Dogon. Colui che narra sta nell’oscurità, come se non potesse essere distratto dalla luce: il suo racconto non ammansirebbe più le ombre e gli altri disegni della notte che il racconto deve decifrare. Anche per noi la prima fiaba è arrivata sul far della notte, per il luminare (= leggere) il buio che s’avvicinava, consolare la nostra paura, dare una strada al nostro smarrimento.  

Commossa in “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, la sequenza in cui gli scimmioni davanti al cielo stellato sperimentano per la prima volta “il tremendo” e avvicinandosi, toccandosi, cercano la prima parola, il primo racconto.
Il bambino teme di perdersi nel buio della notte, non è sicuro di risvegliarsi il mattino: per questo stringe il suo orsacchiotto, perché lo protegga nell’avventura del sonno.

La fiaba lo garantisce, gli dà la fiducia nella luce e nella sua inevitabile venuta, gli offre la sicurezza della sua pedagogia. Pedagogia della notte: non perché il sapere narrativo è oscurato dalle solari pedagogie della ragione che spingono lo sviluppo da e per una sola direzione, la conquista della razionalità che s’impone proprio ignorando le forze sotterranee. Pedagogia della notte significa “civilizzazione” del mondo notturno, apprendimento dei suoi linguaggi, ascolto dei suoi messaggi, in un’operazione che trasforma energie ambigue in forze corrette e feconde.

Non è un caso che il nostro secolo non abbia lasciato fiabe, solo tante favole con finalità didattiche e moralistiche, mentre la fiaba vive della sua gratuità, della pura gioia della trasformazione.

Nella notte si racconta non solo al piccolo popolo o al bambino che ascoltando sentono l’ebbrezza di riconoscersi nel mondo, nella notte si racconta sempre alla morte. Ogni volta che raccontiamo è anche per lei, per ammansirla, per addomesticarla, perché ci prenda senza farci troppo male.

Nel racconto guardiamo negli occhi il mondo infero e lo sguardo penetra l’abisso senza perdersi. Questo è il senso – al dilà degli obblighi strutturali – delle cornici delle grandi raccolte di fiabe e di novelle, come Le mille e una notte dove il racconto salva letteralmente la vita a Sherazad, o Il Decamerone dove mette al riparo i dieci giovani che fuggono la peste, raccontando storie in un giardino d’amore. Anche nell’indiano “L ‘oceano dei fiumi di racconti” il gruppo di fiabe più consistenti (I racconti del demone) viene dal cadavere che il re trasporta, nel quale un invetale, un demone appunto, inizia con il raccontare. Tutti i suoi racconti nascono dall’intimità con la morte – regina degli inferi – e si chiudono con un quesito la cui soluzione rimanda il re a un altro cadavere, in una trasformazione lenta e inesorabile incredibilmente prodotta proprio dalla confidenza con la morte.

La fiaba non si limita a consolarci e più in profondità a farci prendere confidenza con la morte che è poi il fine più segreto della pedagogia della notte.

Nel gioco delle ombre la fiaba porta l’ordine, perché ogni volta che qualcuno racconta mette in ordine il mondo o per usare un’immagine più forte – mette in moto un’altra volta la creazione, dà un nome alle cose, così che anche le cose sanno di esistere.

Dai grandi conflitti alle piccole cianfrusaglie sentimentali, la fiaba non accarezza soltanto, ma mette le cose a posto, fa ordine e giustizia, annunciando che anche il mondo oscuro è parte integrante dell’ordine dell’universo e della sua disposizione nell’individuo.

Diversi studiosi in molte culture hanno ricordato il valore terapeutico della fiaba, noi possiamo aggiungere che è indispensabile per raggiungere una più autentica visione della vita e del nostro essere nel mondo. La fiaba non fonda solo il sillabario “ragionato” della nostra vita psichica, un primo dizionario che comprende candori e meraviglie, stupefazioni e terrori, perdite e ferocie, gelosie e colpe.

La fiaba diviene la mappa, il portolano che ci aiuta a navigare il grande mare della notte, mostrando sempre la segnaletica celeste.

La forza della fiaba non è solo il suo essere specchio del nostro inconscio e dei suoi conflitti passati e futuri, la sua forza è la capacità di ordinare e giustificare il mondo infero: fiumi, sentieri, abissi vi si dispongono in un ordine che è garantito dalla struttura stessa del racconto.

Angelo Croci, Filosofo, teologo e critico cinematografico