La sofferenza come motore dell’individuazione.

“La nevrosi sta sempre al posto 
di una sofferenza legittima.” ,
Carl Gustav Jung

Il Canone Buddhista (1)  racconta la storia di una donna che aveva perso il suo bambino. In preda ad un forte dolore vagava con lo sguardo fisso nel vuoto, portando in braccio il corpo senza vita di suo figlio e chiedendo in giro, qua e là, una medicina che lo potesse resuscitare.

Teneva il suo bambino stretto a sé e continuava ad andare avanti in quel folle stato di agonia da molti giorni: non poteva lasciarlo andare.

Quando il Buddha si accorse di lei, preso da compassione, le disse di conoscere il rimedio, ma che prima avrebbe dovuto fare qualcosa: sarebbe dovuta andare di villaggio in villaggio e raccogliere una manciata di semi di mostarda, prendendo ogni singolo seme da una famiglia che non aveva mai conosciuto dolore, perdita, morte.

La donna accettò il suo consiglio e solo dopo un lungo viaggio realizzò il valore della prima delle quattro nobili verità  che costituiscono i cardini della tradizione buddista: “nella vita esiste la sofferenza”. Tornò dal Buddha a mani vuote, lasciò andare il suo bambino e divenne sua discepola. 

L’immagine di una madre che tiene stretto a sé il suo bambino morto e non lo lascia andare è qualcosa di drammatico e commovente al tempo stesso, perché esprime tutto il senso della fissazione, dell’irrigidimento e del ritiro dalla realtà che molti eventi traumatici possono produrre nell’esperienza psichica di ognuno di noi.

Se la prima nobile verità che il Buddha ha insegnato è che sullo sfondo della vita c’è dolore e sofferenza, la seconda nobile verità insegna invece che l’origine di gran parte di tale sofferenza è l’attaccamento.

Quando l’Io investe su un oggetto una grande quantità di affettività o più in generale di energia psichica, si irrigidisce, perde la sua scioltezza, la capacità di navigare in modo rilassato nella mutevole corrente dell’esistenza, nel flusso perpetuo del mutamento di tutte le cose, nel fiume della vita dove tutto scorre, cambia e si trasforma .

Thomas Merton, celebre teologo, monaco e mistico cristiano statunitense dell’ordine dei Trappisti, autore di numerosi scritti, paragona l’Io ad una sorta di “crampo psichico” (2) .

Del resto il Buddha, muovendo da riflessioni simili a quelle di Eraclito sulla natura del fuoco, era già giunto alla conclusione che il mondo non è costituito da oggetti bensì da processi: tutto ciò che esiste muta e si trasforma in continuazione, nasce, si manifesta e poi scompare .

L’uomo tuttavia, anche se può riuscire a comprenderla razionalmente, di solito fa molta fatica ad accettare la natura ontologica del mutamento e quindi la transitorietà dell’esistente, l’illusorietà di tutto ciò che esiste.

Quando il cambiamento porta sulla scena un evento che mette in dubbio la costanza di un oggetto significativo, che come vedremo dal punto di vista psicoanalitico è soprattutto psichica e cioè interna, introducendo una discontinuità che l’Io non riesce a reggere e ad affrontare, a protezione del sistema psichico entrano in scena i meccanismi protettivi che per loro natura sono orientati alla sopravvivenza, ma a discapito fluidità e flessibilità.

La vita allora non è più in grado di scorrere come prima. E ci vorrà del tempo per poter tornare a nuotare nuovamente e con serenità nel fiume mutevole e imprevedibile della vita.

È necessario un misterioso e faticoso lavoro di dolore, tempo e memoria per poter ritirare gli investimenti affettivi fatti sulla relazione con l’oggetto, per poterlo lasciare andare, raggiungendo così il suo oblio psichico.

E questo lavoro non sempre è immediatamente possibile, perché talvolta il dolore è troppo forte per essere affrontato, l’Io troppo fragile per garantire un’accettabile continuità all’esistenza, i meccanismi di difesa troppo rigidi per essere messi in discussione: invece di tornare a nuotare nel fiume della vita, non resta che rifugiarsi nella pozza della sofferenza nevrotica. 

La morte di una persona cara, la fine di un’amicizia o di un amore, la rottura del patto coniugale, un’interruzione di gravidanza, una malattia improvvisa che intacca l’integrità della salute o la perdita di una parte del proprio corpo a causa di un incidente, il tramonto della giovinezza, il distacco dalla madre patria o un trasloco che costringe a lasciare la casa, la dipartita dei figli che se ne vanno, la perdita del lavoro, del tenore di vita, dello status sociale o semplicemente il pensionamento, ma anche la meno considerata scomparsa di un animale da compagnia, oppure il crollo o il fallimento di un grande progetto o ideale come quello di diventare pittore, medico o imprenditore di successo e infine il raggiungimento di una meta tanto inseguita che segna fine del viaggio.

Tutte forme e figure della perdita, accompagnate dal dolore e dalla sofferenza, che introducono nella vita la precarietà, la discontinuità, il fallimento, il limite, la fine e quindi la morte. Eventi che hanno il potere di scuotere alle radice e in modo drammatico l’esistenza, mettere radicalmente in dubbio il senso della vita, sovvertire idee, credenze o più in generale la visione del mondo.

Spesso vissuti come shock emotivi e cognitivi in grado di polverizzare ogni certezza, eventi traumatici che portano il segno indelebile della ferita, accadimenti che rischiano di fissare e paralizzare l’esistenza nel vuoto del “non senso”.

Accadimenti stressanti e cambiamenti talvolta così radicali e destabilizzanti da mettere a repentaglio la continuità dell’esistenza e quindi la solidità della identità soggettiva dell’Io.

Accompagnati dal dolore solitario della memoria, dal vissuto di un faticoso e interminabile attraversamento del tempo, costellati da strazianti e muti momenti di agonia che il corpo non sempre è in grado di sopportare senza spezzarsi, da ondate di disperazione talvolta chiuse in una solitudine non più capace di contatto, relazione, amicizia e speranza.

Per poter tornare a nuotare nel fiume della vita, dopo una drammatica esperienza di perdita, è assolutamente necessario dover affrontare quella parte di sofferenza inevitabile, necessaria o legittima che la vita porta con sé, la quale, tra l’altro, dalla visuale ristretta dell’Io, è spesso distribuita in modo iniquo.

Tuttavia non sempre e possibile, in quanto la sofferenza e il dolore si infiltrano proprio la dove antecedenti esperienze della perdita hanno lasciato le loro tracce più insidiose ossia nell’infanzia o nell’adolescenza.

Nei fiumi non tutto scorre sempre in modo fluido. Qua e là, come avviene lungo gli argini del Ticino, un fiume che conosco bene perché è sulle sue rive che sono cresciuto, si formano talvolta delle grosse pozze che a lungo andare si riempiono di rami, rifiuti e detriti, nelle quali l’acqua non scorre più limpida come nel resto del fiume dove è ancora viva la corrente, bensì ristagna torbida e putrescente.

Questa metafora del fiume della vita e della pozza della nevrosi ci aiuta a riflettere sul fatto che esiste una sofferenza inevitabile e legittima (o addirittura necessaria) che va accettata e superata.

La saggezza buddista ci dice che gran parte del dolore che si produce nel mondo è relativo all’attaccamento che l’Io intrattiene psicologicamente con i suoi oggetti, al tipo di relazione che con essi ha instaurato e quindi all’incapacità di lasciarli andare, accettando così di attraversare l’inevitabile dolore per la perdita.

La sofferenza accettata, il dolore attraversato, il lutto elaborato di solito rende l’Io più docile, tenero, disponibile e aperto, mentre la sofferenza rifiutata lo rende duro, chiuso, duro, cinico e spesso crudele, in senso senso etimologico captivus ossia prigioniero.

In tal senso l’uomo soffrirebbe di più non tanto per questa sofferenza necessaria e inevitabile, che prima o poi gli capiterà di incontrare, quanto per il dolore nevrotico che si produce dal tentativo di difendersi e di evitare questo dolore inevitabile che l’esistenza necessariamente porta con sé. 

La vita pulsa ad un ritmo e ad una intensità spesso insopportabili. Essere sufficientemente aperti e ricettivi al suo flusso imprevedibile, alla ciclicità ferrea di creazione e distruzione, al continuo dispiegarsi dei paradossi, delle antinomie e delle opposizioni, è un sfida continua al bisogno di tranquillità e di continuità che l’identità dell’Io cerca incessantemente, nella sua capacità di elaborazione e attraversamento dei cambiamenti, nella costruzione di nuovi ponti e significati, ma soprattutto nella capacità di affidamento rilassato e fiducioso alle istanze superiori o transpersonali della psiche, alla sua preziosa dotazione archetipica come a quelle misteriosa capacità produttiva e creativa di trascendere il crudo concretismo dell’esistenza nel simbolo.

Uno degli aspetti di maggior ostacolo alla capacità dell’Io di farsi “cassa di risonanza” (3), di sintonizzarsi con un livello più profondo dell’esistenza, ha a che fare senz’altro come dice Maria-Louise Von Franz, con una eccessiva disponibilità dell’Io a lasciarsi irretire in convinzioni, credenze, valutazioni, categorie o identificazioni ma soprattutto ad una povertà di sentimento  che a mio avviso può includere senz’altro anche la disponibilità dell’Io di farsi più duttile e tenero di fronte al dolore, accettarlo dal punto filosofico e ontologico.

È il sentimento che permette all’esperienza religiosa di trovare spazio dentro di noi e di risuonare in modo unitivo con l’esistente.

Qui vogliamo intendere “esperienza religiosa”  in senso etimologico da religo che significa “unire”, “collegare”.

Jung per religiosità intende la capacità di risuonare con di fatti misteriosi dell’esistenza, con tutto quello che la coscienza dell’Io non riesce a spiegare o padroneggiare utilizzando le sue consuete categorie spazio-temporali, la disponibilità della coscienza di aprirsi all’imprevedibile, all’inaspettato, ad una forma di alterità, a ciò che è irrazionale, invisibile e quindi alla dimensione inconscia.

Su questo tema così centrale ai fini del nostro discorso si espresse nel corso di una conferenza che tenne appena tornato dall’India:

“Vengo ora dall’India, li ho riscoperto questo: l’uomo deve riuscire ad affrontare il problema della sofferenza. L’uomo orientale vuole sbarazzarsi della sofferenza togliendosi di dosso la sofferenza. L’uomo occidentale tenta di reprimere la sofferenza per mezzo delle droghe. Ma la sofferenza deve essere superata, ed è superata solo sopportandola. Questo lo impariamo solo da Lui [Così dicendo indicò l’immagine del crocifisso]” (4) .

A Oriente come a Occidente l’essere umano cerca di procurarsi una felicità effimera per togliersi di dosso il dolore quando invece la sofferenza legittima, quella di cui la tradizione buddista parla, come abbiamo visto, come della prima nobile verità, va affrontata e superata.

E questo atteggiamento è rappresentato da Jung in modo non certo equivoco come un un vero e proprio sacrificio per l’Io, una crocifissione. L’esito della fuga da questa verità sostanziale dell’esistenza, il rifiuto e la protesta nei confronti di questo dolore ontologicamente insito nella vita e anzi necessario per collocarsi nella giusta prospettiva nei confronti de Sé, è la nevrosi, in generale il disagio mentale e in certi casi, come vedremo nel corso del nostro lavoro, la psicosi e quindi la follia: 

“La nevrosi è sempre il sostituto di una sofferenza legittima” (5) ; “Spesso dietro la nevrosi si nasconde tutto il dolore naturale e necessario che non siamo disposti a tollerare” (6) .

Se il modo freudiano di affrontare il tema del dolore per la perdita è più assimilabile al punto di vista della coscienza luminosa dell’Io che di fronte al dolore è chiamato a fare un duro e penoso lavoro psicologico (indicato da Freud come il lavoro di elaborazione del lutto), il  punto di vista junghiano pare essere più interessato ad includere anche il punto di vista dell’inconscio.

Sappiamo che nei suoi viaggi Jung riuscì a guardare l’Occidente da un’altra prospettiva di osservazione facendo notare che in Oriente il soggetto si trovava confrontato con un modo di percepire o di fare l’esperienza dell’esistenza totalmente rovesciato rispetto al nostro, come fosse totalmente immerso nella fiume dell’esistenza piuttosto che osservarla da un punto di vista cosciente e quindi egoico:

“La vita in India non si è incapsulata nella testa. È ancora l’intero corpo che vive. Nessuna meraviglia che l’uomo europeo si senta come se stesse sognando: la vita dell’India, nella sua completezza, è qualcosa che egli si limita soltanto a sognare” (7) .

Anche nel suo viaggio del 1925 presso gli indiani Pueblos del Nuovo Messico Jung ci fornisce una testimonianza molto importante di come l’uomo bianco era visto da fuori. Ochwìa Biano (Lago di montagna), il capo dei Pueblos Taos, aveva un atteggiamento molto critico nei confronti dei bianchi anche se “certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è del proprio” :

“«Vedi» diceva Ochwìa Biano «quanto appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero sempre cercando qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi» Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi. «Dicono di pensare con la testa» rispose. «Ma certamente. Tu con che cosa pensi?» gli chiesi sorpreso. «Noi pensiamo qui», disse, indicando il cuore” (8) .

Il fulcro metapsicologico su cui ruota tutta la psicologia analitica Junghiana non è l’Io come nella psicoanalisi freudiana bensì il Sé, stella luminosa e punto di riferimento assoluto a cui l’Io come un navigante solitario nella notte anela e si orienta senza mai identificarsi completamente.

Questa spinta, alimentata dalla tensione tra gli opposti, è sofferenza ma per questo anche energia: è la capacità della psiche di crescere e operare creativamente su se stessa, di incarnarsi progressivamente, anche se mai pienamente, nel mondo empirico in cui vive, un percorso faticoso fondato sulla perdita e quindi sulla morte.

Questo viaggio che l’Io intraprende orientandosi verso la stella polare del Sé è un un opus in progress, il percorso psicologico dell’individuazione, un processo di trasformazione che coinvolge la psiche in tutta la sua interezza, e che di fatto, come sottolinea James Hillman commentando un passo di Aniela Jaffé  “è in ultima analisi una vera e propria una preparazione alla morte” (9) . Del resto

“è illusorio sperare che la crescita non sia altro che un processo aggiuntivo che non richiede né sacrificio né morte. L’anima predilige l’esperienza della morte per introdurre la trasformazione” (10) .

In questa nuova direzione, anche la patologia mentale, quella che noi abbiamo identificato con Jung come dolore nevrotico per distinguerlo dal dolore inevitabile e necessario, può diventare occasione di trascendenza, tensione e speranza verso il significato:

“Perciò lo scopo principale della psicoterapia non è quello di portare il paziente ad un impossibile stato di felicità, bensì insegnargli a raggiungere pazienza filosofica nel sopportare il dolore. […]. Spesso dietro le nevrosi si nasconde tutto il dolore naturale e necessario che non siamo disposti a tollerare. […]” (11) .

Come può uno psicoterapeuta aiutare il suo paziente a reggere e sopportare la sofferenza necessaria (o legittima come direbbe Jung) che alcuni eventi della vita portano inevitabilmente con sé? Quale è il vero percorso da compiere per ottenere la guarigione del suo paziente? Come si può prospettare un percorso di cura indirizzato a ripristinare lo stato antecedente?

La sua “guarigione”, se così la vogliamo ancora chiamare, sarà valutabile piuttosto da quanto il paziente se ne sarà invece allontanato. I percorsi psicoterapeutici dovrebbero essere più intesi come dei processi o meglio dei rituali iniziatici che

“consisteranno quindi in trasformazioni o sviluppi della personalità individuale verso una nuova condizione”  (12)

più che momenti di ripristino della condizione psichica antecedente. Questo cammino trasformativo della psiche verrà chiamato da Jung “individuazione” (13) .

Solo dopo un lungo viaggio di dolore, di tempo e memoria, quella madre ha potuto lasciare andare il suo bambino e dirigere lo sguardo alla divinità. È avvenuta una guarigione ma perché c’è stata trasformazione. Solo la capacità dell’Io di reggere la drammatica e lacerante sofferenza che scaturisce dalla tensione tra gli opposti, vita e morte, tenere e lascare andare, rifiuto e accettazione, permette l’attivazione delle istanze più profonde della psiche, quelle traspersonali e archetipiche. L’Io sarà così capace di rilassarsi e di consegnarsi fiducioso al Sè.

La donna lasciò andare il suo bambino e divenne sua discepola.

Gianluca Minella


NOTE

  1. I testi sacri del Buddhismo, tradizionalmente indicati come Tripitaka, “tre canestri”, sono attualmente raccolti in tre canoni: il “Canone Pāli”, il “Canone Cinese” e il “Canone Tibetano”. Per approfondimenti si consiglia la consultazione dei seguenti volumi: CORNU P., Dizionario del buddhismo, Mondadori, Milano, 2003;
  2. MERTON THOMAS, Arrendersi all’amore, Edizioni Messaggero, Padova, 2014;
  3. In una recente intervista dal titolo Jung e il sentimento religioso, Robert Mercurio, citando Maria-Louise von Franz, fa riferimento alla possibilità dell’Io di farsi cassa di risonanza: “Come se nella personalità ci dovesse essere una sorta di cassa di risonanza dentro di noi che può essere in certi momenti e in certe persone chiusa oppure foderata come di un materiale fonoassorbente che non permette all’esperienza di risuonare dentro di noi”, MERCURIO ROBERT M., Jung e il sentimento religioso, intervista a cura di Gianluca Minella, in AA.VV., Attualità del pensiero di Carl Gustav Jung. Sguardi, pensieri, riflessioni, Paolo Emilio Persiani Editore (Collana Temenos), Bologna, 2017;
  4. JUNG CARL GUSTAV, Immagine e parola, Ma.Gi., Roma, 2003;
  5. JUNG CARL GUSTAV, Psicologia e religione (1937), Vol. X, Boringhieri, Torino, 1985, II;
  6. JUNG CARL GUSTAV, Psicoterapia e concezione del mondo (1942), Vol. XVI, Boringhieri, Torino, 1981;
  7. JUNG CARL GUSTAV, Il mondo sognante dell’India (1939), Vol. X, Boringhieri, Torino, 1985;
  8. JUNG CARL GUSTAV, Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung, Rizzoli, Milano, 1978;
  9. HILLMAN JAMES, Il sogno e il mondo infero, Adelphi, Milano, 2003.
  10. HILLMAN JAMES, Il suicidio e l’anima, Adelphi, Milano, 2010.
  11. JUNG CARL GUSTAV, Psicoterapia e concezione del mondo (1942), ibidem;
  12. ZOJA LUIGI, La psicologia del profondo nel suo secondo secolo, in AA.VV., In difesa della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2013;  “In sostanza Jung sostituì all’idea di guarigione quella di individuazione”,  ZOJA LUIGI, La psicologia del profondo nel suo secondo secolo, in AA.VV., In difesa della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 2013;
  13. JUNG CARL GUSTAV, Tipi Psicologici (1921), Vol. VI, Boringhieri, Torino, 1969 (Definizioni).