La società senza dolore di Byung-Chul Han
Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare.
“Oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L’algofobia ha come conseguenza un’anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d’amore sono diventate sospette. L’algofobia si estende nell’ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore. L’algofobia interessa anche la politica. Aumentano la spinta al conformismo e la pressione del consenso. La politica s’installa in un’area palliativa e smarrisce qualsiasi vitalità. La «mancanza di alternative» è un analgesico politico.”
I conflitti vanno evitati, “i pensieri negativi vanno evitati e immediatamente sostituiti da pensieri positivi”, la “psicologia della sofferenza” deve lasciare spazio alla “psicologia positiva”, “l’ideologia neoliberista della resilienza trasforma le esperienze traumatiche in catalizzatori di un aumento della prestazione”, “l’allenamento della resilienza in quanto palestra dell’anima ha il compito di modellare l’essere umano nella forma di un soggetto di prestazione il più possibile estraneo al dolore, e sempre felice”.
La medicina e la psicologia positiva promette la felicità come fosse un’oasi di benessere permanente. E tuttavia: “è proprio nell’epoca moderna in cui l’ambiente c’infligge sempre meno dolore, i nostri ricettori del dolore paiono diventare sempre piú sensibili”. Allora iniziamo ad oscultare ossessivamente l’interno del nostro corpo e come nella favola “La principessa sul pisello” di Andersen basta un pisello sotto il materasso per provocare alla piccola principessa grandi dolori e farle passare la notte in bianco. Le persone del giorno d’oggi per Byung-Chul Han soffrirebbero della “sindrome della principessa sul pisello”.
Questa parabola ci ammonisce e ci insegna come la ricerca dell’insensibilità in realtà si riveli un pericoloso boomerang. Le crescenti aspettative nei confronti della medicina associate all’insensatezza del dolore ossia alla incapacità di trasformarlo simbolicamente, ci consegna ad una sindrome del dolore che fa sembrare insopportabili alle persone anche i dolori più insignificanti. La ricerca dell’insensibilità ci condurrebbe verso una pericolosa ipersensibilità.
“Non disponiamo piú di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile. E se il pisello che infligge sofferenza scompare, ecco che le persone iniziano a soffrire a causa dei materassi troppo soffici. È proprio la persistente insensatezza della vita a far male.”
Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo.
E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità.
La sofferenza è diventata uno scandalo e un’esistenza priva di dolore un diritto costituzionale. Il dolore viene privato di ogni possibilità di espressione, interpretato come segno di debolezza, come qualcosa da nascondere: “viene condannato a tacere”.
“La società palliativa è inoltre una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. Ogni cosa viene lucidata finché non suscita approvazione. Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità. Non domina solo i social media, ma anche tutti gli ambiti della cultura. Nulla deve piú far male. Non solo l’arte, ma anche la vita stessa dev’essere instagrammabile, ovvero priva di angoli e spigoli, di conflitti e contraddizioni che potrebbero provocare dolore. Ci si scorda che il dolore purifica, emana un effetto catartico. Alla cultura della compiacenza manca la possibilità della catarsi. Per cui si soffoca tra le scorie della positività che vanno accumulandosi sotto la superficie della cultura della compiacenza”.
Viviamo come posseduti da una sorta di coazione alla felicità, una felicità analgesica e anestetica, intesa come somma di sentimenti positivi, come uno stato dell’essere che permette di raggiungere la migliore prestazione ed il minor dolore. L’assoluta medicalizzazione e farmacologizzazione del dolore impedisce che esso si faccia voce, parola, linguaggio.
Ma la vera felicità è tale solo se è infranta perché “è proprio il dolore a salvaguardare la ferita dalla reificazione”. In realtà è il dolore a reggere la felicità.
“Ogni intensità è dolorosa. La passione unisce il dolore e la felicità. La profonda felicità contiene un attimo di sofferenza. L’infelicità e la felicità sono, secondo Nietzsche, «due sorelle, e gemelle, che diventano grandi insieme o […] restano piccole insieme». Se il dolore viene soffocato, ecco che la felicità si appiattisce riducendosi a un apatico torpore.”
Come dice Nietzsche nei Frammenti Postumi (1881-1882) la profonda felicità rimane inaccessibile a chi non è aperto al dolore:
“L’abbondanza delle specie di dolore si abbatte come un turbine infinito di neve su di un tal uomo, allo stesso modo che su di lui si scaricano i fulmini piú terribili della sofferenza. Soltanto a questa condizione, – essere aperto da tutti i lati e fin nelle piú riposte latebre alla sofferenza, – egli può rimanere aperto alle specie piú raffinate e alte di felicità […]”
Una rimozione, quella del dolore, che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Byung-Chul Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze.
“Il dolore è lo strappo attraverso il quale fa breccia il completamente Altro”
Byung-Chul Han, La società senza dolore, Einaudi, Torino, 2021