La follia che è anche in noi

La tesi iniziale è che quello che noi pensiamo o possiamo cogliere della follia, non dipende soltanto dai contenuti della follia, ma anche dall’atteggiamento che noi abbiamo nei confronti della follia, al di là delle cause possibili, come esperienza di sofferenza di dolore e angoscia.

Da ciò dipende se nella follia cogliamo soltanto deformazione, insensatezza, dissociazione, lontananza, oppure una possibilità umana che ha a che fare con le emozioni, i sentimenti, le ragioni del cuore pascaliane, se ci liberiamo dalle ipoteche che ci portano a considerare la follia come qualcosa di lontano da noi, completamente estraneo, che non abbia niente a che fare con le nostre emozioni con il nostro cuore.

Husserl ci invita a mettere tra parentesi (epoké) tutte le conoscenze teoriche che abbiamo, per cercare di cogliere la dimensione palpitante e viva dei fenomeni, per ascoltare le parole dei pazienti e le voci sottili a volte invisibili che si accompagnano alla sofferenza. Shakespeare dice: “Date parole al vostro dolore se volete che il vostro cuore non si spezzi”. Questi sono contributi che la filosofia e la poesia danno alla psichiatria, che senza queste alleate si trasforma in tecnica e perde di vista gli orizzonti di senso nei quali ogni esperienza di sofferenza umana si realizza.

Come premessa a questo atteggiamento interiore, uno splendido aforisma di Nietzche: “bisogna essere capaci di ammirazioni impetuose ed accogliere nel cuore molte cose con amore, altrimenti non si è adatti a fare i filosofi” e io aggiungo: gli psichiatri, gli psicologi, ma anche gli insegnanti e tutti coloro che abbiano a che fare con relazioni, con gli altri “occhi grigi e freddi non sanno il valore delle cose, spiriti grigi e freddi non sanno il peso delle cose, ma certamente bisogna avere una forza contraria, saper volare in lontananze così vaste e lontane da veder in basso, molto in basso, sotto di sé, anche le cose più ammirate, e molto vicino ciò che si è disprezzato”.

Gli aforismi di Nietzsche sono forse capaci di sfuggire all’oblio che – dice Kundera nel suo saggio “Il sipario” – cancella istantaneamente ciò che leggiamo e soprattutto ciò che ascoltiamo, anche se ci illudiamo che possano sorgere immagini che si salvano, e vivano per un attimo nel cuore, per allargare la comprensione di fenomeni come la follia, che siamo tentati di perdere di vista nella sua dignità umana, nella sua miseria e grandezza.

Anche un grande psichiatra, Ludwig Binswanger, da cui ha avuto origine quel sentiero inizialmente carsico, iniziato a Trento da Basaglia, che ha trasformato la psichiatria e ha cancellato la realtà cruda, dura, dolorosa inaccettabile dei manicomi.

In psichiatria, teoria e prassi, sono legate e allora con occhi grigi e freddi mai capiremmo cosa si nasconde nel silenzio, nel dolore, nella violenza apparente nella dissociazione e nella disperazione di chi ci chiede aiuto; e questo aiuto può essere chiesto non solo agli psichiatri, agli psicologi, ma a chiunque di noi.

Una delle grandi trasformazioni di metodo a cui la psichiatria è giunta, passando dai lager inaccettabili dei manicomi italiani, è – almeno come speranza – quella di portare nel cuore delle esperienze quotidiane le esperienze di dolore e di vita che possiamo cogliere in questa follia, in questo specchio che nasce dall’immagine di SanPaolo: specchi che riflettono oscuramente gli enigmi del dolore della sofferenza e della follia.

Scomponiamo la follia – senza allargarci in discorsi di psichiatria clinica cercando di coglierne gli elementi essenziali: al di là delle infinite denominazioni con cui viene descritta vi sono solo due grandi strutture di significato: la prima, matrice di ulteriori sintomi di sofferenza psichica, è caratterizzata dalla presenza dell’angoscia e la seconda, caratterizzata dalla presenza della malinconia e della tristezza, è quella che oggi tutti chiamiamo depressione.

Dall’angoscia derivano i deliri, le allucinazioni, l’estraneità. Quando l’angoscia è così alta, il solo orizzonte di vita, davanti allo specchio questi pazienti non si riconoscono più. Se la follia è una possibilità umana, esiste una angoscia – descritta da Rilke – che fa parte della vita normale e un’angoscia che fa parte della vita psicotica ed i confini non sempre si riescono a cogliere, a schematizzare e a distinguere.

Le parole radicali hanno forse una capacità di risonanza emozionale più intensa che non quelle freddamente neutrali grigie come quelle che Nietzsche ci ha indicato come rischio fatale di non capire niente degli altri, come rischio fatale di vivere gli incontri con gli altri senza amore.

Sull’amore Binswanger ha scritto un libro di 800 pagine: ci dice che, al di là delle infinite variazioni con cui si può parlare di amore, di agape, di eros, senza la capacità di vivere come nostri il dolore o l’angoscia, la tristezza degli altri si rischia di non capire nulla della follia e soprattutto di come confrontarla e curarla.

Angoscia come matrice che può portare ad angosce filosofiche, l’angoscia di Pascal, questa “canna pensante“ schiacciata tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, di Marcel Proust, l’angoscia filosofica di Martin Heidegger, l’angoscia nella vita di ciascuno di noi, l’angoscia di cui Kurt Schneider – uno dei grandi psichiatri clinici del nostro tempo – ha scritto una breve apologia in cui ci ammonisce: “Non spaventiamoci di vivere crisi di angoscia; spaventiamoci se non abbiamo mai conosciuta le ombre dell’angoscia, le ombre dolorose dell’esistenza, della malinconia, della tristezza”.

Nietzsche: “Per leggere un libro e cogliere e capire le cose che ascoltiamo o che hanno scritto filosofi (come lui ma anche psichiatri come Kurt Schneider o Biswanger) occorre avere dita e occhi delicati, dita delicate per sfogliare le pagine delicatamente, occhi delicati per leggere delicatamente le cose scritte”.

Nella psichiatria come scienza naturale c’è anche il rigore come nella matematica e nelle altre scienze, ma essa è anche scienza umana e come tale ha bisogno di associare al linguaggio de-emozionalizzato delle scienze naturali, un linguaggio possibile solo quando la ragione si trasforma in passione come in Giacomo Leopardi (Lo zibaldone): guai se la ragione estingue la passione.

Queste cose nascono da alcuni paradigmi: quelli di Edmund Husserl, di Martin Heidegger, di Ludwig Biswanger, di Viktor Emil Von Gebsattel, grandi psichiatri tedeschi. La psichiatria è nata in Germania e in Svizzera: i testi scritti ai primi dell’ottocento, i testi scritti 100 anni fa da Karl Jaspers sono ancora testi che vivono, che nutrono la riflessione clinica che cerchi di cogliere la follia come esperienza soggettiva; se non riusciamo a superare le incrostazioni, le maschere dei comportamenti che i pazienti hanno, cercando di fare lievitare la loro profonda interiorità, noi certo non possiamo illuderci di curarli e salvarli dalla sofferenza e dalla morte volontaria.

Angoscia che fa parte della nostra vita che non ci deve spaventare, l’angoscia creativa che porta con sé una straordinaria attenzione, intenzionalità che si rivolge agli altri.

Senza l’angoscia non conosceremo le “Elegie Viennesi” di Rilke in cui Heidegger ha potuto cogliere la sua filosofia nella luce più intensa e nelle sue profondità più abissali. Guardarsi dagli psichiatri senza incertezze, senza il tarlo del dubbio come sorgente di cura come dice Thomas Belvard che ha conosciuto l’angoscia non psicotica.

Le parole che noi diciamo e che noi ascoltiamo possono essere riempite di amore che ci mettono in contatto gli uni con gli altri. La psichiatra che ha raccolto queste parole ha passato lunghe ore ad ascoltare il paziente e le sue esperienze. Il tempo dell’orologio è il peggior nemico di una psichiatria che cura, perché oltre al tempo della clessidra c’è poi il tempo interiore dell’io, il tempo psicologico di Agostino, di Proust, di Pascal.

Dobbiamo valutare l’importanza esistenziale delle allucinazioni, segnate dal dolore: prima di normalizzare un paziente con gli psicofarmaci dovremmo capire se non siano da salvaguardare e da rispettare fino in fondo. Bisogna resistere alla tentazione di applicare le comuni categorie interpretative al dolore dell’angoscia psicotica, agli enigmi della sofferenza.

La follia nasce nell’età di passaggio tra adolescenza e post adolescenza, la cura implica per lo psichiatra, aprirsi a questo aggiornamento continuo, bruciando tutta l’esperienza passata, cancellando il passato senza frantumarlo e farlo confluire verso il presente e verso il futuro secondo l’ intuizione agostiniana.

Un frammento dal Diario di Sylvia Plath che in forma metaforica ci dice cosa succeda nella follia femminile quando l’angoscia psicotica dilaghi: “D’ora in poi parlerò ogni notte con me stessa con la luna, passeggerò come ho fatto stasera, gelosa della mia solitudine nell’argenteo livido della fredda luna che splende facendo brillare una miriade di scintille sui cumuli di neve appena caduta. Da sola, guardo gli alberi scuri beatamente neutrali, molto più facile che affrontare gli altri parlare con la luna, che dover sembrare felice, invulnerabile, brava senza la maschera cammino con la luna con la forza neutrale e impersonale che non ascolta ma che si limita ad accettare la mia esistenza “.

Ancora una volta la radice dell’angoscia è segnata dalla solitudine: guardare, comprendere la solitudine degli altri è possibile solo se conosciamo qualcosa della nostra.

L’esperienza con cui la psichiatria si confronta è segnata dalle ombre, dalle penombre. La malinconia, la tristezza, la depressione oggi vengono utilizzate come parole intercambiabili. Il rischio è di fare di ogni erba un fascio è quello di fare della depressione la matrice omogenea di ogni altra possibile depressione.

Così come ho distinto l’angoscia normale da quella psicotica, dobbiamo distinguere tra la malinconia normale (cioè la depressione “normale” che è però meglio chiamare malinconia) e la depressione che rappresenta l’ammalarsi della malinconia che è un’emozione.

Sembrano distinzioni sofisticate ma anche critici d’arte come Jeanclaire in Francia, nella mostra sulla malinconia a Parigi: titolo la malinconia e la malinconia come follia.

Se non facciamo questa distinzione non comprendiamo nulla della depressione. La depressione che è malattia del secolo, tutti noi siamo esposti al dilagare della depressione. In tedesco si parla di stigmund malinconica che sottolinea il velo di tristezza, di cui parla Schelling, e con sguardo ancor più acuto Leopardi, come premessa di ogni esperienza creativa. Schelling, Leopardi, Thomas Mann hanno inteso – tesi fatte proprie anche dalla psichiatria – stigmund malinconica come riflessione, cammino misterioso che porta verso l’ interno (Novalis) e che è la premessa essenziale per capire che casa accade nell’interiorità degli altri.

Se incontrate pazienti depressi, se vi spaventate dinnanzi al dolore e ai comportamenti che sembrano così lontani dai nostri, ricordiamoci che la sofferenza è l’asse portante della loro vita. “Sino a quando riuscirò a portare avanti questa sofferenza? Ci sono depressioni che durano eternamente e la mia è una di queste. Sono talmente invischiata in questo dolore che mi sembra impossibile che possa togliermi questo peso dallo stomaco, è più che una sofferenza fisica ci si sente diversi.

Con l’angoscia mi sento meglio, mancandomi quest’angoscia mi sento più sola, mi manca ma non dovrei sentirne la mancanza e nondimeno l’angoscia mi parlava, mi diceva qualcosa”.

Pensiero enigmatico e misterioso su cui riflettere per cogliere quante cose esistono in cielo e in terra, più di tutte quelle che non conoscano le nostre psichiatrie, le nostre filosofie. Kuiper diceva che poteva ascoltare solo le Variazioni Goldberg, temi che si ripetono senza fine. Concludo citando Etty Hillersum. Con la follia non c’entra nulla se non nella misura in cui quando una giovane donna riesce a vivere in un campo di concentramento. Le parole sono essenziali per salvare una vita o per perderla, le parole che un medico dice ad un paziente possono essere le parole che possono salvare dalla morte o farlo precipitare, anche le parole che diciamo noi ogni giorno a chiunque ci chieda aiuto a chiunque non abbia nemmeno il coraggio di chiedere aiuto.

Parole che possono salvare una vita, il diario di Etty Hillesum è una sorgente infinita di speranza. “In me c’è sempre un silenzio più profondo, lo lambiscono tante parole che stancano perché non riescono ad esprimere nulla” cancelliamo in noi la parole che stancano ricordiamo come queste germogliano in noi, sono spesso cascate inarrestabili quando non siano riempite di un diapason emozionale che ancora una volta ci faccia sentire il destino dell’altro come il nostro possibile destino.

”Bisogna sempre più risparmiare le parole inutili per trovare quelle poche che ci sono necessarie e questa nuova forma di espressione deve maturare nel silenzio”.

Se siamo capaci di silenzio e capaci di credere in un’immagine straordinaria che sulla speranza ha scritto Walter Benjamin, scrittore e filosofo tedesco: “Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza”.

La speranza ci serve per vivere, senza speranza c’è la morte, ma anche più oscuri dovremo mantenere tracce di speranza perché chi non ha più speranza si può salvare solo se ne intravede qualche eco e qualche immagine.

 

Eugenio Borgna, La follia che è anche in noi, Einaudi, Torino, 2019