Il museo immaginario di Carl Gustav Jung.
Fin dalle sue origini la psicoanalisi ha avvertito il fascino dell’arte. L’interpretazione delle opere, la riflessione sulla vita degli artisti e sui processi di creazione offrono infatti l’occasione per rinnovare il proprio approccio alle forme attivate dal lavoro dell’inconscio.
“Di solito i saggi psicobiografici servono alla soddisfazione dei bisogni di dominio dell’analista e alla difesa e all’illustrazione dei suoi risultati clinici ‘fuori dalle mura’ più che allo sviluppo di un’indagine aperta sulle condizioni della creazione”.
Ma se i testi e le riflessioni di Freud sono noti, i rapporti di Jung con l’arte rimangono ancora da scoprire.
Se il “museo immaginario” di Freud passa dalla Gradiva di Wilhelm Jensen, dal Mosé di Michelangelo o dalla Gioconda di Leonardo non dimostrandosi particolarmente aperto alle arti cosiddette primitive e meno ancora all’astrazione, agli sviluppi dell’espressionismo, al surrealismo o al Dada, il “museo immaginario” di Jung a partire da “Simboli della trasformazione (1913)” si apre amplificandosi all’arte greco-romana, cristiana, egizia, etrusca o a quella degli indiani d’America, dell’oriente per approdare infine all’arte contemporanea di Joyce e Picasso.
A partire da questa opera che costituisce un momento importante di svolta del suo pensiero “la sua attenzione si rivolgerà si rivolgerà costantemente su dei processi, che sono delle trasformazioni, tanto a livello transpersonale, transgenerazionale o collettivo che a quello dell’individuo alle prese con il proprio divenire e con il proprio divenire cosciente”.
La riflessione che ha seguito la recente pubblicazione del Libro Rosso ha ulteriormente contribuito ad un notevole approfondimento dell’affascinate tema dell’autopoiesi della psiche, quel processo dinamico-costruttivo mediante il quale la psiche forma, plasma e crea se stessa.
Dall’arte classica a quella orientale, dalle arti rituali e primitive fino alle nostre avanguardie, dall’arte cristiana all’alchimia occidentale, Jung si è trovato alle prese con una vasta eredità che ha rivisitato senza sosta, riscoprendone lo slancio più autentico e fecondo per il mondo moderno.
Insieme a opere di grande valore, che permettono di ricostruire questo impressionante percorso, sono state riprodotte in questo volume anche realizzazioni artistiche dello stesso Jung.
Uno dei suoi tratti più originali, infatti, è quello che lo ha visto dedicarsi al disegno, alla pittura e alla scultura nel segreto della sua biblioteca o nel giardino della sua casa di Bollingen, sulle rive del lago di Zurigo.
Il suo museo immaginario, formato da scoperte inattese e da intimi ritrovamenti, è un libro indispensabile anche per capire la dinamica dell’opera di questo pioniere della psicoanalisi.
Un libro che narra degli incontri di Jung con le arti antiche, le tradizioni orientali, le arti e i riti primitivi, l’alchimia occidentale, l’arte contemporanea nelle sculture, pitture, architetture, scene della vita quotidiana.
E il modo di entrare di Jung nel mondo dell’arte, come fa notare Gaillard seguendo Humbert, segue un procedimento che ha a che fare con “il lasciare che capiti” (geschehenlassen), con “l’osservare” (betrachten), con il “confrontarsi con l’oggetto dell’incontro” e infine con “il lasciare traccia” ossia con il fissare, che è anche un contribuire, con il dare corpo in modo concreto all’emersione dei contenuti dell’inconscio, con l’espressione di ciò che si presenta “che potrebbe avere resistenza a fissarsi, a fermarsi, a prendere davvero corpo, con il rischio di svilupparsi e perdersi nell’immaginario in un’efflorescenza senza confini”.
Christian Gaillard, Il museo immaginario di Carl Gustav Jung (1998), Moretti & Vitali, 2003.
