Il gioco simbolico: nell’intervallo tra il balocco e il mondo.

“Sulla spiaggia di mondi infiniti giocano i bambini”, L. Tagore

“Quando un bambino gioca sta semprealmeno un palmo sopra se stesso”, L.S. Vygotskij

“Si viveva, cosí, nell’intervallo ch’è tra il balocco e il mondo”, R. M. Rilke

Il significato che riveste il gioco infantile nello sviluppo del bambino è assolutamente centrale, a partire dai 15 mesi per diventare essenziale nell’età che va tra i 3 e i 6 anni.

Troppi adulti che non hanno giocato da bambini giocheranno poi “malignamente” da adulti. Troppi regolamenti della vita adulta nascono da un difetto di gioco dell’infanzia. Perché è cosi importante questo linguaggio?

Si educa se c’è un rapporto e il rapporto c’è quando vi è una circolarità, cioè se noi riusciamo a trasmettere al bambino i nostri linguaggi, il nostro sapere, la nostra esperienza, la nostra memoria. 

Questa circolarita dà al bambino un sentimento di continuità e di appartenerza che diventa poi il pilastro della sua identità e quindi della sua forza, della sua capacita di rapportarsi con il mondo. Ma in questa circolarità, che è costituiva dell’educare, noi dobbiamo anche ascoltare, leggere ed interpretare i linguaggi dell’infanzia: e i linguaggi dell’infanzia sono il linguaggio del corpo, il linguaggio del gioco, il linguaggio del disegno, il linguaggio dell’immaginario. Linguaggi sovrani che caratterizzano la comunicazione infantile e non a caso cominciamo dal gioco, che è il linguaggio più straordinario che esista.

Piaget è arrivato a dire che “il gioco dovrebbe accompagnarci in tutta la nostra vita”.

Piaget diceva che niente di importante può accadere ad un bambino che lui non riproporrà nei suoi giochi. Questo significa che ogni volta che un bambino gioca, ci sta raccontando la sua interiorità, la sua immagine del mondo, il proprio mondo emotivo, ci sta dicendo che cosa sta vivendo. Quindi il gioco è un repertorio prezioso: non dico che dovremmo metterci in ginocchio, ma forse potremmo anche farlo, per guardare un bambino che gioca: “Sulla spiaggia di mondi infiniti giocano i bambini”, recita un verso di Tagore che ci rimanda un atmosfera di sacralità.

Il gioco non è solo un linguaggio, il gioco infantile ha a che vedere con la sfera del sacro, è qualcosa di sacro. Quando il genitore guarda il proprio bambino e dice “adesso basta perdere tempo, basta giocare”, in fondo sta bestemmiando, è sacrilego e sta distogliendo il bambino da un’attività sacra e per lui fondamentale. Eppure nel nostro dire spesso abbiamo da adulti un’immagine del gioco completamente scorretta e vediamo il gioco come un passatempo o peggio una perdita di tempo.

Un altro psicologo russo, Vigosky, dice: “Quando un bambino gioca sta sempre almeno un palmo sopra se stesso”.

Vuol dire che quando abbiamo fatto riflessione intorno al gioco infantile abbiamo colto sempre questa essenzialità che non sta tanto in quello che possiamo leggere sul manuale di psicologia dove ci dicono che il bambino giocando imita, che un bambino giocando apprende e quindi che il gioco è una forma di apprendimento. I manuali di psicologia ci dicono che un bambino giocando socializza cioè impara a relazionarsi all’altro, ma noi vogliamo fare una riflessione più profonda: il gioco è sempre un surplus di energia, è un’espansione di energia che il bambino giocando esprime, espandendo la propria vitalità: e allora noi capiamo che il gioco ha che fare con una cosa più segreta e più intima che è la creatività.

Hall ci dice che il gioco è una ricapitolazione: ogni volta che un bambino gioca rifà la storia del mondo, come dire che “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”,  il che vuol dire che lo sviluppo del singolo bambino che sta giocando, ricapitola lo sviluppo della specie. Dovremmo avere uno stupore guardando un  bambino che gioca. Questo credo che sia l’atteggiamento più corretto che dovremmo avere rispetto al gioco infantile. Huizinga in “Homo ludens” di Huizinga afferma che l’attivita del gioco è una delle attività costitutive dell’essere umano. Questo è quanto la tradizione ci ha detto sul gioco: che è un’attività rilevante attraverso la quale il bambino impara, si adatta, socializza e favorisce l’integrazione dell’Io, il suo processo di maturazione.

Un altro aspetto è che l’adulto spesso impedisce il gioco, lo mortifica, lo confina in orari e in spazi chiusi: “qua no, adesso basta giocare” e spesso dal punto di vista psicologico dà al bambino dei giochi che non consentono al bambino di giocare. Ci sono dei giochi che fanno “gioco da soli”, pensiamo ai giochi elettronici in cui il bambino non è piu soggetto attivo del suo gioco ma ne diventa spettatore. Spesso diamo al bambino giochi che sono la proiezione adulta dei nostri desideri infantili. Abbiamo sognato per tutta l’infanzia un trenino elettrico e adesso che il nostro bambino compie un anno gli regaliamo un trenino elettrico. Che se ne fa? Risponde solo al nostro bisogno, perché così soddisfiamo e ci prendiamo le nostre rivincite.

Fino a 15 mesi i giocattoli non servono. Istintivamente il bambino gioca col mondo, con le cose; è patetico vedere dei genitori che quando un bambino di un anno gioca con un cucchiaio, con un piatto, gli  vanno a comprare il servizio miniaturizzato da cucina. Ma i piattini non sono un oggetto del quotidiano, del mondo. I piu grandi giochi di un bambino di un anno sono il corpo, il bambino gioca con il suo corpo e con il corpo della mamma: viene definito gioco autocosmico. Tutto il mondo è lì e il bambino gioca con il suo mondo: allora il bambino sta lì, smonta le dita della sua mano e gioca. Intanto coordina occhio e movimento, quindi giocando sta imparando. Certo dopo un po’ si stufa e gioca con le dita dei piedi, e se è un maschietto dopo un po’ anche con il pisellino. E nessuno lo deve minacciare che se lo tagliano via se ci gioca, perché nessuno gli ha detto che mi tagliano via le dita della mano, mentre giocavo con le dita della mano: è il gioco del corpo. Poi la sabbia e l’acqua. Questi sono straordinari giocattoli a un anno, e il bambino sporcherà un po’, però tutti quelli che hanno giocato con la sabbia non giocheranno con la cacca, perché il bambino vuole giocare anche con la cacca, questo è il grande tema dell’educazione al vasino.

Il gioco infantile, da sempre, ha avuto a che fare, con la sfera del sacro. Rodari in un libro strepitoso che si intitola “Grammatica della fantasia”, dice che i giocattoli dei bambini stavano un tempo nelle mani degli adulti ed erano le trottole, le palle, eccetera. Ad un certo punto gli adulti, che erano stregoni, sciamani, sacerdoti, li hanno lasciati cadere e sotto c’erano i bambini che li hanno raccolti e hanno trasformato quegli oggetti sacri in giocattoli.

Che cosa accade a 15 mesi?  Una cosa straordinaria e meravigliosa: il bambino comincia a separarsi della mamma, ma non regge la distanza e nasce allora quella che si chiama in psicologia l’angoscia di separazione. Questo è il momento in cui ognuno di noi ha scoperto la morte. Il bambino “scopre la morte”. Ha esperienza della morte (il concetto della morte arriverà più avanti). Il bambino non regge il distacco, l’abbandono, la separazione. Prende allora un orsacchiotto, un peluche, un animaletto che ha lì vicino, se non ce l’ha prende il lembo di una coperta come Linus, se non ci arriva neanche perché il lembo della coperta è corto si affida ad una ciocca di capelli, un lobo di un orecchio e lo trasforma in qualcos’altro, fa diventare quell’orsacchiotto la mamma che sta lontana, fa diventare quella coperta un prolungamento della figura materna. Questo si chiama oggetto transizionale. Questo orsacchiotto non lo userà magari per dieci anni, non lo guarderà più, però lo terrà lì. Conosco degli adulti che ce l’hanno ancora, magari nascosto ma al sicuro come in una cassaforte interiore, nascondono in quel luogo sicuro il proprio oggetto transizionale. È successa una cosa straordinaria: il bambino ha fatto la sua prima creazione simbolica. Ha preso l’oggetto e lo ha trasformato in qualcos’altro, lo ha fatto diventare simbolo di qualcos’altro. Questo è stato per ciascuno di noi la prima creazione culturale della nostra vita.

Nella quarta Elegia, Rilke dice “Si viveva, cosí, nell’intervallo ch’è tra il balocco e il mondo”.

Il gioco come un tempo sospeso, magico, straordinario. È un linguaggio che possiamo imparare come si apprendono tutti i linguaggi. Un linguaggio simbolico: il bambino usa oggetti e pupazzetti per raccontare delle storie, perché il gioco simbolico è sempre un gioco narrativo. Noi possiamo dire che i nostri figli giocando raccontano delle storie in ognuna delle quali c’è il riflesso di ciò che loro sono in quel momento, quindi il primo comandamento è: “osserviamoli giocare, guardiamoli giocare, cerchiamo di capire cosa vogliono dire giocando”. 

Il “gioco della sabbia” formalizzato da Dora Kalf (Sand Play) permette al bambino di mettere i suoi pupazzetti, alberelli, animali e quant’altro in una cassetta di sabbia dipinta di azzurro.

Rodari ci ha insegnato che con anche con le parole si può giocare, con “giochi di parole” e filastrocche.

Gioco come linguaggio, comunicazione e voglia di raccontare; ma anche come invito perché spesso il bambino ci invita nel suo gioco e noi faremmo bene ad entrare solo se invitati, perché non si invade lo spazio del gioco senza invito. Il bambino, prima di giocare, circoscrive il territorio del gioco, e lo fa simbolicamente, tracciando con un dito la linea di confine (spesso i maschietti tracciano il confine con macchinine o soldatini). Per entrare ci vuole la parola d’ordine ossia la password perché per entrare nello spazio del gioco bisogna aderire a delle regole che non sono quelle del mondo adulto, ma le regole del signore di quel paese. E se vogliamo che le regole, l’ordine e la disciplina arrivino dal mondo adulto non possiamo permettere che le regole del mondo adulto invadano lo spazio del gioco.

Il gioco ci sottrae dal tempo storico e cronologico e ci introduce nel tempo spazializzato, ci porta nel tempo che sant’Agostino chiamava “la durata interiore”.

Angelo Croci, Filosofo, teologo e critico cinematografico