La paternità va insegnata. Ettore: il prototipo del padre.

‘“[…] Ettore tese le braccia a suo figlio, ma il bambino piegò la testa piangendo nel seno della nutrice, terrorizzato dalla vista del padre; lo spaventava il bronzo e il cimiero coi crini di cavallo che vedeva oscillare terribilmente in cima all’elmo. Sorrisero allora il padre e la nobile madre, e subito lo splendido Ettore si tolse l’elmo e lo depose, rilucente, sopra la terra; baciò suo figlio e lo palleggiò tra le braccia […]”, Omero, Illiade

Questo saggio di Luigi Zoja si occupa delle origini e dell’evoluzione del padre da un punto di vista unitario: storico, sociologico e sopratutto psicologico e della crisi contemporanea che sta attraversando la “paternità” nella società occidentale.

Il libro rilegge alcune figure mitiche dell’antichità classica come Ettore, Ulisse, Enea, immagini dell’affermazione del padre nella nostra cultura occidentale.

Nei miti sono sedimentate le esperienze di chi ci ha preceduto e come dice Jung i miti sono il “sogno universale dell’umanità”.

Passando dall’Ebraismo al Cristianesimo nel quale alla parola del Padre subentra quella del Figlio, per approdare al laicismo e alla democrazia con l’inaugurazione di una dimensione più orizzontale della società, si assiste ad un lento ma costante svuotamento dei “simboli del padre”.

L’industrializzazione prima, le due guerre mondiali poi, la grande esplosione dei divorzi nella società contemporanea, conducono inesorabilmente al collasso attuale della figura del padre la quale si sta pericolosamente sgretolando lasciando intravedere pericolose conseguenze a cui l’autore non sa proporre una soluzione se non quella di portare questo fenomeno alla luce della consapevolezza collettiva.

La mitologia greca ci restituisce due immagini molto diverse del maschile: Ettore è il padre che innalza suo figlio verso Zeus prima di andare in battaglia, mentre Achille è il maschio iroso e violento che pensa solo alla guerra; Ettore incarna l’essenza del padre, una figura che desta grande ammirazione. Achille è invece il guerriero, l’eroe.

Ettore perde, Achille vince dimostrando una schiacciante superiorità guerriera. Ettore d’altra parte sapeva di essere meno forte di Achille, ma lo affronta ugualmente per proteggere la sua patria e dimostrando un altro tipo di forza e di coraggio. Ettore rappresenta un’eccezione nel panorama greco, perché nell’epica omerica domina principalmente la figura dell’eroe che deve uccidere gli avversari, vincere, prevalere, competere.

Troia viene sconfitta e il vincitore, Achille, mostrerà durezza anche nella vittoria, non rispettando neppure il corpo del suo nemico, desiderando anzi di darlo in pasto ai cani perché non abbia nemmeno una degna sepoltura. L’eroe perfetto è proprio Achille: iroso, privo di equilibrio, ebbro di vittoria e di dominio. Manifesta la hybris, l’arroganza che è parte integrante della struttura epica dell’eroe greco.

Achille non può essere padre poiché non si occupa della sua famiglia, ma deve tener conto dell’intera stirpe. Non può fermarsi sui propri figli, egli è il comandante, il difensore di tutto un popolo. Insomma è lontano dalla logica della paternità. Questo schema eroico del poema greco trova proprio un’eccezione in Ettore, nell’eroe che rimane padre, anzi che è “padre” oltre che “patriota”, due parole che hanno un suono comune. “Per l’uomo occidentale, l’orizzonte storico del padre è greco”. (pag. 77)

È nel “gesto di Ettore” che si trova addensato tutto il significato della paternità, nella sua morte, sbranato dai cani e dagli avvoltoi, “la possibilità di regressione dalla responsabilità all’istinto, e la dissoluzione del progetto paterno” (pag. 101).

Rispetto alle radici giudaico-cristiane e alle forti influenze che pure l’Islam ebbe sulla nostra civiltà, e alla importanza di Roma quale fondamento ancora vivo dell’Occidente, Luigi Zoja sceglie di dare più spazio alla Grecia. È dalla Grecia classica, secondo lui, che abbiamo ereditato le immagini mitiche e tra esse il mito del padre, immagini che abitano la nostra psiche di occidentali, immagini “che hanno formato lo strato profondo del nostro mondo immaginale” (pag. 78).

L’orizzonte in cui si muove Luigi Zoja è più simbolico e psicologico, che non teologico o spirituale.

È importante rilevare che “il padre” non è una figura naturale, originaria nella specie umana.Dallo studio dei nostri cugini primati, come orango, scimpanzé e gorilla, si può rilevare che agli albori dell’umanità, le femmine avessero una funzione qualitativa, dato il numero limitato dei discendenti che ognuna di esse poteva generare, mentre era propria dei maschi una funzione più quantitativa che era però prerogativa dei più forti, gli unici che si accoppiavano con le femmine del branco. La vita della maggior parte dei nostri pro-genitori maschi era caduca quanto quella di una foglia di insalata e aveva, per quanto riguardava la continuità della specie, lo stesso valore dei loro spermatozoi: nulla, essendo essi un vicolo cieco sulla strada della vita.

E’ comunque nell’orizzonte preistorico che possiamo far risalire due delle caratteristiche della nostra specie: il bisogno di sapere e il bisogno di raccontare: “La forma di vita individuale che chiamiamo psiche” (pag. 37) si è modellata nel corso di un’evoluzione lunga centinaia di migliaia di anni, ma è da uno “sprazzo” di tempo che essa lascia tracce nell’arte e nel mito che non ci stanchiamo di interrogare.

Ci fu un giorno in cui i maschi “si accordarono, non come aveva supposto Freud, per aggredire il patriarca che monopolizzava le femmine, ma al contrario, per smettere di aggredirsi: per spartirsi le femmine secondo una regola. Le ricostruzioni dell’antropologia dicono proprio questo: le regole più elementari delle società più semplici e antiche hanno a che fare con la spartizione delle donne”. (pag. 39)

All’interno dell’identità femminile, le due entità primarie, la donna come madre (verticale) e la donna come compagna (orizzontale) sono le stesse anche nell’evoluzione animale, come dice anche Neumann, uno dei più grandi eredi di Jung e come sostiene anche Margaret Mead, una delle più grandi antropologhe del ‘900: la funzione materna è ereditata naturalmente e biologicamente, anche se le culture danno luogo a diverse entità materne ma che sono formate a partire da un nucleo comune stabile nei secoli e nei millenni.

L’identità maschile paterna non possiede questa stabilità tanto che è molto variabile dal punto di vista storico e culturale. Al mito, rileva Zoja, appartiene anche l’età d’oro del matriarcato, verità non dimostrabile in alcun modo in quanto non abbiamo prove oggettive, ma immagini e manufatti che ci lasciano però capire quanto la figura della madre abitasse profondamente nella psiche dei patriarchi. Di matriarcato possiamo quindi parlare in termini di realtà psicologica piuttosto che storica: “quei corpi di donna così fecondi […] raccontano certamente di una fantasia di gravidanza. Di una fissazione della mente attorno al produrre, generare, nutrire” (pag. 72).

L’identità maschile paterna compare già nella letteratura occidentale di cui abbiamo traccia, delineando una civiltà già patriarcale, anche se non sappiamo quando si formi. Dalle ricostruzioni evolutive non emerge un ruolo fisiologico paterno; negli animali, questo ruolo, non esiste. Con l’essere umano assistiamo ad un salto che appare con la cultura. Le due polarità, le due possibilità dell’identità maschile, il “padre” e il “maschio non paterno” sono probabilmente molto recenti e questo ci permette di capire come mai il “padre” può liquefarsi, disfarsi, abbandonare così facimente i figli. Questo perché “il padre” come diceva Margaret Mead va insegnato ad ogni generazione.

In linea di massima, la paternità, se non viene insegnata il maschio non la conosce, mentre la maternità, a meno a che una cultura non insegni il contrario, è già presente alle origini. Nell’illuminismo francese le classi colte di Parigi che preparano la rivoluzione mandano a balia i figli in campagna,  per rivederli solo dopo un certo numero di anni. La maternità viene trasmessa biologicamente, anche se con tutte le possibili sfumature. Tranne eccezioni il materno esiste, mentre il paterno si impara culturalmente. Quindi il “paterno”, se non è insegnato, scompare.

Un esempio è la debolezza strutturale della paternità tra gli afro-americani dovuta non ad una debolezza economica, moltissimi afro-americani si sono inseriti benissimo nel ceto medio, bensì al fatto che con la schiavitù non esisteva più l’istituzione del padre. Negli Stati Uniti è molto diffuso il fenomeno delle madri adolescenti afro-americane che fanno figli senza essere sposate, una vecchia tradizione che è rimasta immutata, e continua ad essere una piaga anche e soprattutto in America latina dove il fenomeno esiste fin dalle origini.

In America latina, infatti, la società si formò in modo molto diverso rispetto nord America dove la colonizzazione era di famiglie protestanti che si sentivano traditi dal re d’Inghilterra e dalla chiesa di Roma. Avevano la bibbia e il fucile, sterminavano gli indiani ma erano mariti fedeli e creavano molto nel nucleo patriarcale tradizionale.

Nell’America latina, la colonizzazione fu fondamentalmente ispanica e fatta da conquistatores maschi, che uccidono gli indio e si accoppiano con le donne indigene senza essere sposati con loro. Addirittura in sud America, alcuni conquistatores, avevano harem fino a ottanta/cento concubine.

Celebre fu una spedizione di sole donne volevano redimere quegli uomini brutali e degenerati. Una spedizione disastrosa che naufragò e che può essere vista come il simbolo della “irredimibilità” del maschile violento. Uno dei grandi ostacoli allo sviluppo dell’ America latina è questa forte instabilità familiare fondata sull’assenza del padre con una percentuale di madri nubili del 40/50% che si sta diffondendo anche nel nord degli Stati Uniti ed è in aumento anche in Europa.

Tutta l’ipotesi che guida la ricerca di Luigi Zoja è fondata sulla bipolarità della identità maschile non sufficientemente sintetizzata dall’evoluzione perché “storica” e “culturale”, cioè un’identità che va insegnata, di nuovo, ad ogni generazione.

Uno è il maschio animale e competitivo presente in tutte le specie animali, che compete con gli altri maschi per accoppiarsi, mentre l’altro è il padre. Il primo è il “maschio fisico”, il secondo il “maschio psicologico”.

Nel mondo femminile, sia la madre che la compagna sono entrambe sia molto fisiche che psicologiche. Forse questo aspetto è sorgente di quella inconscia invidia che il maschio ha per la donna, che avrebbe fatto nascere il patriarcato in reazione al matriarcato.

È probabile che dopo una fase di ammirazione del maschile verso il femminile, si è verificato un rovesciamento nell’opposto (nel pensiero junghiamo chesto processo è definito enantiodromia) con l’affermazione del patriarcato.

Il patriarcato non è stato però integrato nell’evoluzione. Anche negli animali più vicini a noi manca un padre. Nei mammiferi (250 milioni di anni fa) si specializza il rapporto madre-figlio e si abbozza, negli antropoidi, una cultura tra le madri e le figlie come alcune pratiche di raccolta che non sono presenti nell’istinto della scimmia ma viene appreso culturalmente.

Nelle società animali più vicine a noi non esiste un ruolo maschile fisso. Nelle società umane più antiche esiste già una figura maschile più stabile accanto alla madre anche se il padre ha un ruolo secondario. Il ruolo della madre è primario anche se non è verbale: allattamento, protezione, soddisfazione, accudimento in genere. Il ruolo del padre è secondario, è il primo elemento di società, più facile ma più complesso.

Non più soddisfare i bisogni del bambino ma porre dei limiti, dire dei no, accompagnare il bambino in un mondo che è anche degli altri. Funzione secondaria e limitante perché la società umana è molto complessa. La funzione del padre è di porre dei limiti, è costitutivamente fatto così. La sua specializzazione è quella del limite, del pensiero astratto e della lungimiranza.

Quando i nostri progenitori passarono ad una funzione molto più complessa ed iniziarono a cacciare in zone sempre più lontane, la caccia è diventata una specializzazione sempre più maschile, fondata sugli strumenti e quindi non solo sull’istinto immediato di procacciare il cibo, ma di pianificare una caccia più complessa, che prevedeva un’andata e del ritorno. Bande di cacciatori neolitici, carichi delle prede catturate, tornano a casa, verso il loro insediamento.

Il mito di Ulisse è quello che rappresenta questo salto di qualità del maschile, in grado di partire, curioso di vivere le avventure con il ciclope e con la ninfa calipso, ma ritornare. Nell’Oddisea, già nei primi versi, è scritto “morirebbe pur di vedere il fumo salire dai tetti”.

Noi siamo discendenti dagli umani che avevano un interesse più stabile verso la compagna e i figli, verso un progetto nel quale il padre aveva un ruolo stabile vicino alla madre anche se secondario. Questo tipo di pricologia proto-ulissica (questa disposizione ad avere un progetto) è stata favorita dalla selezione naturale perché questi maschi alimentavano i figli garantendo una sopravvivenza sicura alla specie per migliaia di anni.

Se come dice Jung i miti sono come il sogno universale sognato da tutta l’umanità che si deposita nell’inconscio collettivo, nel mito greco (il mito più antico che ci riguarda come civiltà occidentale) dell’Iliade è rappresentata questa dualità tra Achille ed Ettore. Mentre Achille è il guerriero, il cacciatore, colui che vuole essere riconosciuto e farsi bello davanti agli altri, diventare il migliore, Ettore rappresenta il maschio che ha superato questo stadio dello sviluppo per diventare padre.

Se è vero che i miti sono sedimentati nel nostro inconscio collettivo, ci troviamo di fronte ad una profezia drammatica perché dei due, è la forza, la violenza e  la competitività che vince. Achille uccide Ettore.

Il canto IV dell’Iliade è l’unico capitolo, in uno poema di guerra senza un progetto, se non quello di una guerra scatenata per una bellissima donna, dove sono presenti  tante forze contrastanti il cui senso pare solamente quello di prevalere, nel quale si avverte la presenza di questa figura del padre. Ettore prima di andare a combattere torna a casa, abbraccia la moglie e quando abbraccia il bambino lui strilla e si gira dall’altra parte.

Ettore e Andromaca si guardano e capiscono. Il poeta, forse il primo dei grandi psicoanalisti, ci fa capire che Ettore rientrato di corsa è ancora vestito dalle armi e in lui c’è ora il maschio guerriero e competitore. Per entrare a casa deve svestire l’armatura, per poi rivestirla il giorno dopo. Il bambino si era spaventato per l’elmo con la chioma rossa.

Solo dopo essersi tolto l’elmo può abbracciare il bambino e innalzarlo verso Zeus: “Fa che questo figlio sia più forte del padre”. È la dimensione verticale del padre, “il gesto di Ettore”.

Anche in Ulisse c’è il maschio che vive alla giornata, ma anche il maschio che ha un progetto. In lui c’è l’orizzonte maschile che vive alla giornata, con il gusto della conquista della femmina, curioso di avventure, che non ha pazienza, un maschile adolescenziale che ha l’orizzonte breve, ma c’è anche un maschile che ha un progetto, ritornare ad Itaca.

“È con l’autoeducazione che Ulisse chiede al suo cuore di sopportare la vista dei Proci che invadono la sua casa, che hanno inizio confronto e dialogo interiore come base per poesia, narrazione introspettiva moderna e psicologia” (pag. 104-106). I proci non riusciranno mai a conquistare Penelope perché non possiedono questo atteggiamento, dell’ attesa paziente e dell’auto-educazione. Emblematica e significativa è l’immagine della camera da letto che era stata scolpita nel legno d’ulivo, un’immagine forte che rimanda alla dimensione del tempo, alla pazienza e all’attesa consapevole.

Un altro atteggiamento tipico del padre vero, che non ha questo culto dell’apparenza, è rappresentato da Priamo che travestito da vecchio, ancora più vecchio di un mendico, va da Achille a chiedere la salma di suo figlio per poter dire le preghiere.

Il buon padre non è solo castratore, ma colui che dice al figlio “oggi no, basta con coca cola, con la TV, perché è importante che tu stia sui libri. E non te lo dico perché sono il padre castratore. Te lo dico perché alla fine dell’anno faremo un bilancio e sarai più contento di te stesso quando avrai raggiunto gli obbiettivi che ti eri prefisso”.

Il padre da il nome ai figli, per continuare il patriarcato, come superamento della instabilità del maschio. Nelle Eumenidi il padre, per esagerazione, diventerà l’unico genitore del figlio proprio perché il padre è così fragile. Da qui nasce la fantasia che sia solo il padre a fecondare la madre e quindi l’idea dell’omunculus. I greci erano naturalisti e buoni osservatori.

Osservando il seme che cade dalla pianta come l’elemento fecondatore, mentre la terra come elemento ricettivo nasce la fantasia della madre come ricettacolo del seme dove c’è tutto. In realtà sappiamo che il figlio ha i caratteri genetici sia del padre che della madre. L’omunculs è un “omino in miniatura” mentre la madre è solamente una incubatrice. Questo è l’aspetto più estremo del patriarcato. Fu dunque nell’antica Grecia che si attivò “quel pregiudizio di superiorità maschile che ha percorso tutto l’Occidente sino a penetrare la psicanalisi”. (pag. 134).

Enea con il padre sulle spalle è un’altra figura verticale. Il padre che innalza il figlio è una immagine di verticalità, il figlio verso il cielo e più lontano dalla madre, dalla terra. Ettore innalza il figlio perché lo vuole più vicino al padre che è nei cieli e quindi a Zeus. I padri abbracciano i bambini diversamente dalle madri come dimostrano molti studi, al contrario delle madri il cui abbraccio è un proseguimento della nutrizione. Il padre gira il figlio per fargli vedere il mondo, lo innalza o lo butta in aria come per trasmetter un segnale a non avere paura e ad elevarsi.

L’illuminismo inaugura la critica alla verticalità, una rivoluzione sociale e politica che detronizza un vertice che sta troppo in alto, che ha un eccessivo monopolio ma per la prima volta data la profondità della ideologia illuminista procede in direzione di una critica del patriarcato. Alla fine della rivoluzione francese molte delle prerogative paterne passano allo stato. La critica al potere vuole ripristinare una maggiore orizzontalità e fondare una società orizzontale dell’orda, dei fratelli, del branco. Già la rivoluzione francese porta il marchio del prevalere di questa società orizzontale dei fratelli: “fraternità” che diventa più importante del principio gerarchico patriarcale. La rivoluzione industriale allontana poi i padri che non sono più modelli da seguire agli occhi dei figli e “il padre” diventa un’astrazione che si presenta solamente con “l’assegno” economico scomparendo dalla visuale del figlio.

Il XX secolo, nella prima parte, conosce due generazioni di padri allontanati dagli occhi dei figli per causa delle guerre. negli stati uniti le generazioni sosto state tre con la guerra in Vietnam. Le guerre ci sono sempre state, ma la società era più stabile e non era stata devastata dall’inumanità generalizzata, dalla paranoia, dall’idea del nemico solo cattivo (vedi Luigi Zoja, Paranoia. La follia che fa la storia, 2011) una credenza di cui scontiamo le conseguenze ancora oggi. “La guerra non era più un inebriante dio pagano, ma statistica e tecnologia della strage”  (pag. 195).

La fine della prima guerra mondiale con la conseguente crisi economica, la rivoluzione russa, la fine di quattro grandi imperi, la nascita della comunicazione di massa, spianarono la strada alla nascita dei totalitarismi fascista e nazista con l’affermazione di due figure profondamente anti-paterne: Mussolini e Hitler, che richiamavano più la figura del guerriero inebriato che era Achille che non quella del difensore della patria e della famiglia che erano Ettore, Ulisse ed Enea.

Hitler però non fu padre in quanto dedicò la sua vita alla politica e al perseguimento dei suoi crudeli obiettivi e Mussolini, benché abbia generato cinque figli legittimi e numerosi illegittimi, fu un padre sostanzialmente assente. Le grandi dittature del ventesimo secolo ci hanno lasciato un’immagine paterna simile a quello di Crono divoratore dei propri figli, guidato dall’impazienza e non del progetto, atteggiamento che fu, secondo Zoja, una delle cause psicologiche della sconfitta dei dittatori.

Dalla prima guerra mondale in poi i nemici iniziano ad essere seppelliti separati. Le guerre allontanano i padri i quali se tornano e sfuggono al massacro diventano reduci, non tornano ad essere maschi stabili e cioè padri di famiglia.

Il fascismo ha usato questi reduci dandogli il manganello e utilizzandoli come picchiatori, come massa di manovra, assegnando loro un compito para-eroico. I veterani del Vietnam sono uomini intossicati ormai dalla violenza, maschi che non riescono più ad uscire dalla polarità del maschile combattente, che diventa una intossicazione anche collettiva molto difficile poi da debellare. Il livello di sofferenza, suicidi, tossicodipendenze e criminalità in questi reduci è altissima. Maschi violenti e sbandati che vengono a far parte di bande criminali.

Sarà comunque al termine della seconda guerra mondiale che la ormai appannata immagine paterna entrerà nella fase conclamata di crisi che perdura tuttora.

Nella seconda parte del XX secolo assistiamo al liquefarsi del maschio stabile per la laicizzazione della società e a una esplosione di divorzi in tutto il mondo occidentale. Con il divorzio il 90% dei figli sta con la madre per cui la figura del padre si sgretola. Iniziano a comparire immagini di nuovi padri, nei quali compare la nostalgia del materno, che abbracciano i figli come fanno le madri. Padri molto giovani, senza caratteristiche aggressive, che aiutano la madre nella prima fase dell’educazione. Ma cosa succederà nella seconda fase dell’educazione nella quale un certo tipo di paternità diventa importante per accompagnare il figlio nel suo ingresso nel mondo, nella società?

Significative e sconsolanti sono le statistiche che ci dicono quanti minuti (si badi minuti) i padri dedicano ai figli nelle società occidentali: per i padri americani si parla di sette minuti al giorno. Inoltre la crisi del modello familiare patriarcale, la maggior liberta e indipendenza economica femminile, hanno fatto si che la tenuta dei matrimoni e la loro durata media siano considerevolmente diminuite. Uno studio fatto su proiezioni per i nati nel 1980, prevedeva che oltre il 70% dei bambini di famiglia bianca e il 94% di quelli di famiglia nera si sarebbero ritrovati con un genitore solo. Un altro dato degno di nota è che il 79% dei padri americani, dieci anni dopo il divorzio o non paga più gli alimenti o è semplicemente scomparso. In ogni caso la miseria della famiglia è sempre correlata all’assenza del padre.

Il risultato psicologico di questa assenza sociale e ed economica è tale che ne risente anche chi prima soffriva a causa dei mali del patriarcato. Un tempo “I padri rassicuravano la psicologia collettiva. Nell’immaginario collettivo, la loro presenza era la presenza della responsabilità” (pag. 245).

Ancora le statistiche dicono che in assenza di padre la criminalità è più alta. Nelle prigioni americane l’85% dei detenuti è senza padre. In America latina a parità di disagio nella famiglia con il padre la possibilità di inserimento nella società è più facile. Il padre fa una grossa differenza.

Anche la fede c’è ancora ma è un fatto sempre più privato e meno collettivo: si è sgretolata anche l’immagine del Padre che è nei cieli.

Zoja chiude il suo studio ammettendo di non avere suggerimenti per uscire da questa crisi.

L’unico suggerimento è quello di coltivare la memoria e di riappropriarsi delle nostre capacità progettuali e della fiducia in un futuro diverso e di un diverso cammino: “Nell’assenza di padre dell’oggi, una delle poche certezze che abbiamo è la necessità di continuare a discuterne e a cercarlo perché i peggiori mali psichici non derivano tanto da come si affronta un problema, quanto dal non esserne consci”. (pag. 298)

Rimane impressa l’immagine di un padre silenzioso e distratto immerso nelle immagini propinate dalla televisione e dimentico della moglie e dei figli, che una delle pazienti di Luigi Zoja, lapidariamente, definirà come “un cretino”.

Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.