Carl Gustav Jung: “Sogni, ricordi e riflessioni”.
“Esplorò la sua anima con un telescopio. E tutto quanto vi appariva irregolare egli dimostrò essere splendoredi costellazioni. E aggiunse mondi e mondinascosti alla cosienza”, Coleridge
Un libro da leggere e rileggere per chi voglia conoscere la vita, il pensiero e l’opera di Carl Gustav Jung, ricavato da documenti rari e dalle conversazioni con Aniela Jaffè. Arrivato a ottant’anni, Jung, si decide a narrare la sua vita, a raccontare il suo “mito personale”, la sua storia, “la storia di un’autorealizzazione dell’inconscio” come lui stesso la definisce. Pagine dunque ricche di saggezza, di esperienza del profondo e di autentica spiritualità.
“La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate e poi appassisce, apparizione effimera. Quando riflettiamo sull’incessante sorgere e decadere della vita e della civiltà, non possiamo sottrarci a un’impressione di assoluta nullità: ma io non ho mai perduto il senso che qualcosa vive e dura oltre questo eterno fluire. Quello che noi vediamo è il fiore, che passa: ma il rizoma perdura. In fondo, le sole vicende della mia vita che mi sembrano degne di essere riferite sono quelle nelle quali il mondo imperituro ha fatto irruzione in questo mondo transeunte. Ecco perché parlo principalmente di esperienze interiori, nelle quali comprendo i miei sogni e le mie immaginazioni. Questi costituiscono parimenti la materia prima della mia attività scientifica: sono stati per me il magma incandescente dal quale nasce, cristallizzandosi, la pietra che deve essere scolpita. Tutti gli altri ricordi di viaggi, di persone, di ambienti che ho frequentati sono impalliditi di fronte a queste vicende interiori“.
“Tutto ciò che si trova nel profondo dell’inconscio tende a manifestarsi al di fuori, e la personalità, a sua volta, desidera evolversi oltre i suoi fattori inconsci, che la condizionano, e sperimentano se stessa come totalità. “Preferisco il ternime inconscio, pur sapendo che potrei parlare di Dio e di un demone”.
“Pressappoco a quel tempo ebbi un’altra decisiva esperienza vitale. Percorrevo, per andare a scuola, la lunga strada da Klein Hueningen, dove abitavamo, a Basilea, quando, improvvisa ebbi – per un breve momento – la straordinaria impressione di essere appena emerso da una densa nuvola. Tutt’a un tratto mi dissi: ora sono davvero me stesso! Era se come una coltre di nebbia fosse alle mie spalle, e dietro di essa non ci fosse ancora un ‘Io’. In quel momento io nacqui a me stesso. Prima ero esistito, certamente, ma avevo solo subito gli avvenimenti: adesso ero io stesso l’avvenimento che mi capitava. Ora ero certo di essere me stesso, ero certo di esistere. Prima ero stato sempre coatto a fare: adesso ero io a volere. Questa esperienza vitale mi parve terribilmente decisiva e nuova: ormai c’era ‘autorità’ in me”.
“Di fronte a questo muro vi era un declivio, dal quale sporgeva un masso: era la mia pietra. Spesso, quando ero solo, andavo a sedermi su quella pietra, e cominciava allora un gioco fantastico, press’a poco di questo genere: ‘Io sto seduto sulla cima di questa pietra, e la pietra è sotto’, ma anche la pietra potrebbe dire ‘Io’ e pensare: ‘Io sono posata su questo pendio ed egli è seduto su di me’. Allora sorgeva il problema: ‘Sono io quello che è seduto sulla pietra, o io sono la pietra sulla quale egli siede?’ Problema ch’era sempre il mio assillo, e allora solevo alzarmi chiedendomi chi ora fosse qualcosa. La risposta era tutt’altro che chiara, e brancolavo nel buio, buio che però stranamente mi affascinava. Non nutrivo dubbi che la pietra non fosse in qualche oscuro rapporto con me, e potevo sederci su per ore, affascinato dal suo enigma”.
“Quando pensavo di essere la pietra, il conflitto si placava. La pietra non ha incertezze, non ha bisogno di comunicare, ed è eterna, vive per i millenni ‘pensavo’ mentre io sono solo un fenomeno passeggero turbato da emozioni d’ogni genere, simili a una fiamma che divampa rapidamente e poi si spegne. Io ero solo la somma delle mie emozioni, e Altro in me era la pietra senza tempo”.
“Ma la grande scoperta che risultò dalla mia indagine fu Schopenhauer. Era il primo a parlare delle sofferenze del mondo, che ci circondano così visibili ed evidenti, e della confusione, delle passioni, del male, in breve di tutto ciò che gli altri sembravano appena notare e risolvevano in una onnicomprensiva armonia. Ecco finalmente un filosofo che aveva il coraggio di vedere che non tutto è per il meglio, nelle fondamenta dell’universo. Non parlava della onnisciente e infinitamente buona provvidenza di un Creatore, né dell’armonia del cosmo, ma affermava brutalmente che un vizio fondamentale è alla base del doloroso corso della storia umana e della crudeltà della natura: la cecità della Volontà creatrice del mondo. Ne trovai la conferma nelle mie osservazioni infantili di pesci malati e morenti volpi rognose, uccelli morti di freddo o di fame; crudeli tragedie, nascoste da un prato fiorito, vermi torturati a morte dalle formiche, insetti che si sbranavano l’un l’altro pezzo a pezzo, e così via. Ma anche la mia esperienza degli esseri umani mi aveva insegnato tutt’altro che la fede nella originaria bontà e moralità dell’uomo. Mi conoscevo abbastanza bene per sapere che io stesso mi distinguevo da un animale solo per una differenza di gradi”.
“La tempesta che soffiava contro di, me era il tempo, che scorre senza tregua verso il passato, e senza tregua, allo stesso modo, ci incalza alle calcagna. È un potente risucchio che attira in sé, avidamente, tutto ciò che vive: possiamo solo sfuggirgli – per poco – tendendo in avanti. Il passato è terribilmente reale e presente, e afferra – chiunque non sappia riscattarsi con una risposta soddisfacente”.
“I bambini reagiscono molto meno a ciò che dicono gli adulti che non agli imponderabili fattori dell’atmosfera che li circonda. Il bambino inconsciamente si adatta ad essi, cioè sorgono in lui correlazioni compensatrici”.
“Sebbene noi esseri umani abbiamo una vita personale, tuttavia siamo in gran parte rappresentanti, vittime e promotori di uno spirito collettivo i cui anni si contano a secoli”.
“Che cos’erano gli uomini, alla fine? ‘Nascono muti e ciechi come cuccioli, pensavo ‘ e come tutte le creature di Dio sono dotati di debolissima luce, insufficiente a illuminare l’oscurità nella quale si muovono a tentoni. Ero parimenti certo che nessuno dei teologi di mia conoscenza avesse mai visto ‘la luce che splende nelle tenebre’ coi propri occhi, perché se l’avessero vista non avrebbero mai potuto insegnare una ‘religione teologica’; di una religione teologica non sapevo che fare; non corrispondeva alla mia esperienza di Dio. Invitava a credere senza speranza di conoscere […] Il peccato fondamentale della fede, secondo me, stava nel fatto che essa anticipava l’esperienza. Come facevano i teologi a sapere che Dio aveva ordinato alcune cose e ne aveva ‘permesso’ delle altre, e gli psichiatri a sapere che la materia possiede le qualità dello spirito umano?”.
“Il mio primo libro fu dedicato alla psicologia della dementia praecox(schizofrenia), e in esso la mia personalità, con i suoi pregiudizi, così rispondeva alla “malattia della personalità”: la psichiatria, nel senso più ampio, è un dialogo tra la psiche ammalata e la psiche del medico, che si suppone sia “normale”; è una spiegazione tra la personalità ammalata e quella del terapeuta, per principio anch’essa soggettiva. Il mio scopo era di mostrare che idee deliranti e allucinazioni non erano proprio dei sintomi specifici di malattie mentali, ma avevano anche un significato umano”.
“I miei interessi e le ricerche erano dominati dallo scottante problema: che accade realmente nei malati di mente? Era qualcosa che allora non riuscivo ancora a capire, e nessuno dei miei colleghi si era mai tormentato circa tale problema. Gli insegnanti di psichiatria si interessavano non di quel che il paziente potesse avere da dire, ma piuttosto della diagnosi, dell’analisi dei sintomi, di statistiche. Il paziente era catalogato, bollato con una diagnosi, e, per lo più, la faccenda finiva così. “.
“In molti casi psichiatrici, il paziente ha una storia, che non è stata raccontata a nessuno, e che di solito nessuno conosce. Secondo me, la terapia comincia veramente solo dopo aver indagato su questa storia personale. È il segreto del paziente, la causa della sua rovina, che rappresenta però anche la chiave del suo trattamento. Il medico deve solo sapere come apprenderla. Egli deve porre quelle domande che colpiscono tutto l’uomo, e non solo i suoi sintomi”.
“Le diagnosi cliniche sono importanti perché consentono al medico di orientarsi in qualche modo, ma non servono ad aiutare il paziente. Il fatto decisivo è il problema della sua “storia”, perché essa sola mostra lo sfondo umano e l’umana sofferenza: e solo allora la terapia medica può mettersi all’opera”.
“Grazie al mio lavoro con i pazienti mi resi conto che le, idee ossessive e le allucinazioni contengono un nocciolo significativo. Nascondono una personalità, la storia di una vita, speranze e desideri. È solo colpa nostra se non riusciamo a capirne il significato. Mi fu chiaro allora per la prima volta che una psicologia generale della personalità è implicata nella psicosi, e che anche in questa si ritrovano i vecchi conflitti dell’umanità.”
“[…] presi a considerare i malati in una luce diversa, poiché avevo finalmente capito la ricchezza e l’importanza della loro vita interiore […] Spesso mi vengono chiesti chiarimenti circa il mio metodo analitico o psicoterapeutico. Non posso rispondere in modo univoco: la terapia è diversa per ogni caso. Quando un medico mi dice che segue rigorosamente questo o quel metodo, ho i miei dubbi sull’efficacia della sua terapia. E stato scritto tanto sulla resistenza che oppone il malato, da far sembrare quasi che il medico voglia tentare di imporgli qualcosa, mentre la cura dovrebbe provenire spontaneamente dal malato stesso […] L’importante è che io mi ponga dinanzi al paziente come un essere umano di fronte a un altro essere umano”.
“Nelle grandi crisi della vita, nei momenti supremi, quando è in gioco l’essere o non essere, i piccoli trucchi suggestivi non servono: in quei casi il medico è chiamato in causa con tutto il proprio essere […] Come medico devo costantemente chiedermi che specie di messaggio il paziente mi reca. Che cosa significa per me? Se per me non rappresenta niente, non ho alcun appiglio. Solo quando il medico è interessato, la sua azione è efficace. ‘Solo il medico ferito guarisce’. Ma se il medico si rinchiude nell’abito professionale come in una corazza, non ha efficacia. Io prendo i miei pazienti sul serio; forse sono posto di fronte a un problema come loro. Spesso accade che il paziente sia proprio il medicamento adatto per il punto debole del medico; quindi situazioni difficili possono presentarsi anche per il medico, o piuttosto proprio per lui. Ogni terapeuta dovrebbe essere controllato da una terza persona, sì da rimanere aperto ad un altro punto di vista: anche il papa ha un confessore. Il mio consiglio agli analisti è sempre: ‘Abbiate un confessore o una madre a cui confessarvi!’ Le donne sono particolarmente dotate per questo compito. Spesso hanno eccellenti intuizioni e un senso critico penetrante, e sanno vedere che cosa gli uomini nascondono in sé, e a volte sanno penetrare anche nei meandri della loro “anima”. Scorgono aspetti delle cose che agli uomini sfuggono”.
“Non cerco mai di convertire i miei pazienti a qualcosa, e non esercito mai alcuna pressione. A me interessa soprattutto che il paziente possa realizzare la sua personale visione delle cose. Grazie al mio trattamento un pagano diventa pagano, un ebreo ebreo, un cristiano cristiano, secondo ciò che il suo destino comporta.”.
“L’inconscio collettivo è comune a tutti; è il fondamento di ciò che gli antichi chiamavano la simpatia di tutte le cose”.
“Ho spesso visto persone diventare nevrotiche per essersi appagate di risposte inadeguate o sbagliate ai problemi della vita. Cercano la posizione, il matrimonio, la reputazione, il successo esteriore o il denaro, e rimangono infelici e nevrotiche anche quando hanno ottenuto ciò che cercavano. Persone del genere di solito sono confinate in un orizzonte spirituale troppo angusto. La loro vita non ha un contenuto sufficiente, non ha significato. Se riescono ad acquistare una personalità più ampia, generalmente la loro nevrosi scompare. Per questo motivo ho sempre attribuito la massima importanza all’idea di sviluppo. La maggior parte dei miei pazienti non consisteva di credenti, ma di persone che avevano perduto la fede. Venivano da me le “pecorelle smarrite”. Persino al giorno d’oggi il credente ha la possibilità, nella sua chiesa, di vivere i simboli. Si pensi all’esperienza della messa, del battesimo, all’imitatio Christi, e a molti altri aspetti della religione. Ma vivere e sperimentare dei simboli presuppone una partecipazione vitale da parte del credente, e molto spesso oggi questa manca. Nei nevrotici è praticamente sempre assente”.
“Mi balenò l’idea che Eros e l’impulso di potenza fossero, come due fratelli discordi di un solo padre, di un solo impulso psichico, che – come la corrente elettrica positiva e negativa – si manifesta empiricamente in due forme opposte: l’una come patiens, l’Eros, e l’altra come agens, l’istinto di potenza, e viceversa. L’Eros pretende dalla potenza, così come l’istinto di potenza pretende dall’amore. Dov’è uno dei due istinti senza l’altro? Se da una parte l’uomo soggiace all’istinto, cerca di dominarlo dall’altra”.
“Non è un segreto che Zarathustra è l’annunciatore di un vangelo; e anche Freud cercava di far concorrenza alla Chiesa con l’intento di canonizzare una dottrina. È vero che non l’ha fatto troppo apertamente, ma in compenso ha accusato me di voler passare per profeta. Egli solleva la tragica pretesa e allo stesso tempo la cancella. Questo è il modo in cui per lo più ci si comporta con le luminosità, ed è giusto che sia così, perché sono vere in un senso, e non vere in un altro. L’esperienza luminosa innalza e umilia insieme […] Ogni volta che la psiche è scossa violentemente da un’esperienza luminosa, v’è il pericolo che il filo, al quale si è sospesi, possa spezzarsi. Se questo accade, v’è il pericolo che il filo, al quale si è sospesi, possa spezzarsi. Se questo accade c’è chi cade in un’affermazione assoluta, chi in una negazione assoluta. Nirdvandva(libertà dagli opposti) dice l’Oriente. L’ho ben impresso nella memoria. Il pendolo spirituale oscilla tra ciò che ha senso e ciò che non ne ha, non tra giusto ed errato. Ilnuminosumè pericoloso perché attira gli uomini agli estremi, così che una modesta verità è considerata la verità, e un errore secondario è eguagliato all’errore fatale”.
“Ecco il sogno. Ero in una casa sconosciuta, a due piani. Era la “mia casa”. Mi trovavo al piano superiore, dove c’era una specie di salotto ammobiliato con bei mobili antichi stile rococò. Alle pareti erano appesi antichi quadri di valore. Mi sorprendevo che questa dovesse essere la mia casa, e pensavo: “Non è male!”. Ma allora mi veniva in mente di non sapere che aspetto avesse il piano inferiore. Scendevo le scale, e raggiungevo il piano terreno. Tutto era molto più antico, e capivo che questa parte della casa doveva risalire circa al XV o XVI secolo. L’arredamento era medievale, ed i pavimenti erano di mattoni rossi. Tutto era piuttosto buio. Andavo da una stanza all’altra, pensando: “Ora veramente devo esplorare tutta la casa!”. Giungevo davanti ad una pesante porta, e l’aprivo: scoprivo una scala di pietra che conduceva in cantina. Scendevo, e mi trovavo in una stanza con un bel soffitto a volta, eccezionalmente antica. Esaminando le pareti scoprivo, in mezzo ai comuni blocchi di pietra, strati di mattoni e frammenti di mattoni contenuti nella calcina: da questo mi rendevo conto che i muri risalivano all’epoca romana. Ero più che mai interessato. Esaminavo anche il pavimento, che era di lastre di pietra, e su una notavo un anello: lo tiravo su, e la lastra di pietra si sollevava, rivelando un’altra scala, di stretti gradini di pietra, che portava giù in profondità. Scendevo anche questi scalini, e entravo in una bassa caverna scavata nella roccia. Uno spesso strato di polvere ne copriva il pavimento, e nella polvere erano sparpagliati ossa e cocci, come resti di una civiltà primitiva. Scoprivo due teschi umani, evidentemente di epoca remota e mezzo distrutti. A questo punto il sogno finiva […] Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto o illuminato dalla coscienza. La psiche primitiva dell’uomo confina con la vita dell’anima animale, così come le caverne dei tempi preistorici […]Il mio sogno pertanto rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana, un presupposto di natura affatto impersonale. Questa idea colpiva nel segno […]”.
“Assimilare l’intuizione che la vita psichica ha due poli, rimane ancora un compito del futuro”.
“Secondo me i sogni sono natura che non ha intenzioni ingannatrici, ma esprime qualcosa come meglio può, così come una pianta cresce o un animale cerca il suo cibo come meglio possono. Così anche gli occhi non vogliono ingannare, ma forse ci inganniamo perché gli occhi sono miopi. Oppure, sentiamo male perché le nostre orecchie sono piuttosto sorde, ma non sono le orecchie che vogliono ingannarci”.
“Nelle mie tenebre non avrei potuto desiderare nulla di meglio di un vero, vivente “guru”, qualcuno che possedesse conoscenze e abilità superiori e potesse districare per mio conto le involontarie creazioni della mia fantasia. Questo compito fu intrapreso da Filemone che, per questo aspetto, dovetti riconoscere, volente o nolente, come mio psicagogo. E infatti egli mi comunicò diversi pensieri illuminanti. Più di quindici anni dopo mi venne e a far visita un indiano, un uomo anziano assai colto, amico di Gandhi, e parlammo dell’educazione indiana e in particolare del rapporto tra “guru” e “chelah“. Con esitazione gli chiesi se poteva dirmi nulla circa il carattere e la personalità del suo “guru“, al che egli, con tono di chi parla di dati di fatto, rispose: ‘Oh, sì, era Shankaracharya’. ‘Non vorrete dire il commentatore dei Veda, che morì secoli fa!”‘ osservai. Con mia sorpresa disse: ‘Sì, certo, proprio lui.” chiesi: “Ma allora vi riferite a uno spirito?’ “Naturalmente, si trattava del suo spirito” confermò. In quel momento mi ricordai di Filemone. ‘Ci sono anche guru spirituali’ aggiunse. ‘La maggior parte ha come guru degli uomini viventi, ma c’è sempre qualcuno che ha uno spirito come maestro’ Questa notizia mi illuminò e mi rassicurò al tempo stesso. Evidentemente, allora, io non ero stato sbalzato fuori dal mondo umano, ma avevo soltanto avuto un tipo di esperienza che poteva capitare ad altri che facessero sforzi simili”.
“[…] cominciai a capire i disegni mandala […] Là ogni mattina schizzavo in un taccuino un piccolo disegno circolare, un mandala, che sembrava corrispondere alla mia condizione intima di quel periodo. Con l’aiuto di questi disegni potevo di giorno in giorno osservare le mie trasformazioni-psichiche”.
“Non ero affatto libero dal pregiudizio comune e dalla violenza della coscienza che vuol credere che ogni ispirazione di una certa importanza sia merito proprio, e che solo reazioni di minor valore siano dovute al caso o addirittura provengano da fonti esterne. Il giorno seguente, da questa irritazione e da questa disarmonia interiore, nacque un mandala alterato: una parte del cerchio era rotta e la simmetria era turbata. Solo un po’ per volta scoprii che cosa è veramente il mandala, ‘Formazione, trasformazione, della Mente eterna, eterna ricreazione’ (Faust, parte seconda). E questo è il Sé, la personalità nella sua interezza, che è armoniosa se tutto va bene, ma non sopporta l’autoinganno. I miei mandala erano crittogrammi concernenti lo stato del mio Sé, che mi erano proposti quotidianamente. In essi vedevo come il Sé, cioè la mia totalità, operava. Certo, dapprima potevo capirli solo vagamente: ma mi sembravano molto significativi, e li custodivo come gemme preziose. Avevo la netta sensazione di qualcosa di centrale e, col tempo, grazie ad essi, acquisii una viva rappresentazione del Sé. Mi appariva come la monade che io sono e che è il mio mondo. Il mandala rappresenta questa monade, e corrisponde alla natura microcosmica dell’anima. Non so più quanti mandala disegnai allora, ma furono moltissimi. Mentre li disegnavo, ripetutamente mi si poneva il problema: ‘A che porta questo processo? Qual è la sua meta?’. Per personale esperienza sapevo che per ora non potevo presumere di scegliere una meta che mi paresse degna di fiducia. Avevo visto che dovevo abbandonare del tutto l’idea della supremazia dell’io. La prova era già fallita: volevo continuare l’elaborazione scientifica dei miti, così come l’avevo iniziata nel libro Watidlungen und Symbole der Libido. Quella era la mia meta, ma non dovevo pensarci! Ero costretto a seguire io stesso il processo dell’inconscio. Dovevo lasciarmi portare dalla corrente, senza sapere dove mi avrebbe condotto. Quando cominciai a disegnare i mandala, comunque, vidi che tutto, tutte le strade che avevo seguito, tutti i passi intrapresi, riportavano sempre a un solo punto, cioè nel mezzo. Mi fu sempre più chiaro che il mandala è il centro. È l’espressione di tutte le vie. È la via al centro, alla individuazione. Durante quegli anni, tra il 1918 e il 1920, cominciai a capire che lo scopo dello sviluppo psichico è il Sé. Non vi è una evoluzione lineare; vi è solo un andare attorno al Sé. Uno sviluppo uniforme esiste, al più, solo al principio; dopo, tutto tende al centro. Questo convincimento mi diede stabilità, e un po’ per volta ritornò la mia pace interiore. Sapevo che nel trovare il mandala come un’espressione del Sé avevo raggiunto ciò che per me era il vertice. Forse qualcun altro ne sa di più, io no”.
“Fu quella la prima volta che ebbi l’occasione di parlare con un non-europeo, cioè con un non-bianco. Era un capo dei Pueblos Taos, un uomo intelligente, dell’età di quaranta o cinquant’anni. Il suo nome era Ochwìa Biano (Lago di Montagna). Potei parlare con lui come raramente ho potuto con un europeo. Certamente era prigioniero del suo mondo, così come un europeo lo è del proprio, ma che mondo era! Parlando con un europeo ci si incaglia sempre nei banchi di sabbia delle cose conosciute da tempo ma mai comprese; con questo indiano invece la nave galleggiava su mari profondi, sconosciuti. E non si sa che cosa sia più affascinante, se la vista di nuove spiagge o la scoperta di nuove vie d’accesso a ciò che ci è noto da sempre e che abbiamo quasi dimenticato. ‘Vedi’diceva Ochwìa Biano ‘quanto appaiono crudeli i bianchi. Le loro labbra sono sottili, i loro nasi affilati, le loro facce solcate e alterate da rughe. I loro occhi hanno uno sguardo fisso, come se stessero sempre cercando qualcosa. Che cosa cercano? I bianchi vogliono sempre qualche cosa, sono sempre scontenti e irrequieti. Noi non sappiamo cosa vogliono. Non li capiamo. Pensiamo che siano pazzi’
Gli chiesi perché pensasse che i bianchi fossero tutti pazzi.
‘Dicono di pensare con la testa’ rispose.
‘Ma certamente. Tu con che cosa pensi?’ gli chiesi sorpreso.
‘Noi pensiamo qui’, disse, indicando il cuore.
M’immersi in una lunga meditazione. Per la prima volta nella mia vita, così mi
sembrava, qualcuno mi aveva tratteggiato l’immagine del vero uomo bianco”.
“Allora capii che nell’anima, fin dalle sue prime origini, c’è stato un anelito alla luce e un impulso inestinguibile ad uscire dalla primitiva oscurità. Quando giunge la notte profonda, ogni cosa assume un tono di cupa malinconia, di un’indicibile nostalgia della luce. È questo il sentimento che si manifesta negli occhi dei primitivi, e che può essere notato anche negli animali. Negli occhi di questi c’è una tristezza che non scopriremo mai se dipende dalla loro anima o se è un doloroso messaggio che ci si manifesta da quell’esistenza originaria. Questa è l’atmosfera dell’Africa, l’esperienza delle sue solitudini. È un mistero materno, l’oscurità primordiale. Ecco perché l’esperienza più sconvolgente per il negro è la nascita del sole al mattino. Il momento in cui la luce appare, è Dio. Quell’attimo apporta la salvezza. Credere che il sole sia Dio, significa perdere e dimenticare l’esperienza archetipa di quel momento. Dire: ‘Siamo contenti che la notte, durante la quale vagano gli spiriti, sia passata’, è già razionalizzare. In realtà grava sopra la terra un’oscurità diversa da quella naturale della notte: è la primeva notte psichica che per innumerevoli milioni di anni è stata ciò che è ancora oggi. L’anelito alla luce è l’anelito alla coscienza”.
Carl Gustav Jung, Sogni, ricordi, riflessioni, BUR