Accettare se stessi è una pratica religiosa

[…]  il paziente non si sente accettato se non è accettato anche quel che vi è di peggiore in lui. Questo non si può fare a parole, ma soltanto con la disposizione dell’animo e con l’atteggiamento, mettendosi di fronte a sé stessi e al proprio lato oscuro. Se il medico vuole guidare о soltanto accompagnare la psiche di un altro, deve istituire con lui un contatto che non potrà mai esistere se egli lo condanna. […] L’uomo veramente religioso ha questo atteggiamento.

Egli sa che Dio ha creato ogni sorta di cose meravigliose e incomprensibili, e che cerca di raggiungere il cuore degli uomini nei modi più impensati; perciò sente in ogni cosa la presenza misteriosa della volontà divina. […] Non si può mutare nulla che non si sia accettato.

La condanna non libera, opprime, e io non sono l’amico e il fratello sofferente di colui che condanno, bensì il suo oppressore. […] Se il medico vuole aiutare un paziente, deve accettarlo così com’è; ma può far questo soltanto se prima ha accettato sé stesso così com’è. Forse questo sembra molto semplice, ma le cose semplici sono sempre le più difficili. L’arte di essere semplici è la più elevata, così come accettare sé stessi è l’essenza del problema morale e il nocciolo di un’intera Weltanschauung.

Ospitando un mendicante, perdonando chi mi ha offeso, arrivando perfino ad amare un mio nemico nel nome di Cristo, dò prova senza alcun dubbio di grande virtù. Quel che faccio al più piccolo dei miei fratelli l’ho fatto a Cristo.

Ma se io dovessi scoprire che il più piccolo di tutti, il più povero di tutti i mendicanti, il più sfacciato degli offensori, il nemico stesso, è in me, che sono io stesso ad aver bisogno dell’elemosina della mia bontà, che io stesso sono il nemico da amare, allora che cosa accadrebbe?

Di solito assistiamo in questo caso al rovesciamento della verità cristiana, allora scompaiono amore e pazienza, allora insultiamo il fratello che è in noi, allora ci condanniamo e ci adiriamo contro noi stessi, nascondiamo agli occhi del mondo e neghiamo di aver mai conosciuto quel miserabile che è in noi, e se fosse stato Dio stesso a presentarsi a noi sotto quella forma spregevole, lo avremmo rinnegato mille volte prima del canto del gallo.

Carl Gustav Jung, Psicologia e Religione (1937-38), OPERE XI, Boringhieri, Torino, 1992.