Il disagio della civiltà di Sigmund Freud

“Chi, tranne gli dei, scorre la vita eternamente senza mai dolore?”, Eschilo

Per Freud la felicità piena è impossibile, perché l’uomo, misurandosi con le brutali ed originarie componenti istintive, nel corso di un lungo processo di umanizzazione, attraverso strategie raffinatissime, ha dovuto barattare un po’ di piacere per ottenere più sicurezza. La civiltà ha lavorato nei secoli a questo estenuante compromesso per ottenere tipi umani più adatti, anche se a carico di un grande dispendio di energia. Nella visione metapsicologia freudiana l’Io si trova condannato ad un continuo ed incessante lavoro di mediazione tra gli istinti o impulsi primari dell’Es e le norme sociali che si configurano come divieti prescrittivi del Super-Io.

Il principio del piacere e il principio della realtà sono in costante conflitto tra loro. Questo è il disagio in cui vive la nostra civiltà.

Per Freud “l’uomo civilizzato ha barattato un poco della sua possibilità di essere felice per un po’ di sicurezza”. La gioia selvaggia è stata sacrificata per trovare un altro tipo di felicità, forse un po’ più tiepida ma più sicura, duratura e luminosa.

“Come si vede, è semplicemente il programma del principio del piacere, a stabilire lo scopo della vita. Questo principio domina il funzionamento dell’apparato psichico sin dall’inizio[…] il suo programma è in conflitto con il mondo intero […] tutti gli ordinamenti dell’universo si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia ‘felice’. Quel che nell’accezione più stretta ha nome felicità, scaturisce dal soddisfacimento, perlopiù improvviso, di bisogni fortemente compressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico. Qualsiasi perdurare di una situazione agognata dal principio di piacere produce soltanto un sentimento di moderato benessere; siamo così fatti da poter godere intensamente soltanto dei contrasti, mentre godiamo pochissimo di uno stato di cose in quanto tale“.

Un programma fisiologicamente impossibile quello della felicità piena. Il paradiso inteso com sentimento oceanico conviene immaginarselo alle spalle come una sorta di fantasia infantile e assumersi la responsabilità di cercare un modo adatto e ragionevole per sentirsi felici. “Le nostre possibilità di essere felici sono dunque già limitate dalla nostra costituzione”.

Emblematica oltre che ironica è una nella quale Freud cita Goethe, il quale ammonisce che “nulla è più difficile di una sfilza di belle giornate” per poi aggiungere “ma forse esagerava”.

Quindi la nostra felicità è minacciata continuamente dalla sofferenza o dall’infelicità:

“La sofferenza ci minaccia da tre parti: dal nostro corpo che, destinato a deperire e a disfarsi, non può eludere quei segnali di allarme che sono il dolore e l’angoscia, dal mondo esterno che contro di noi può infierire con forze distruttive inesorabili e di potenza immane, e infine dalle nostre relazioni con altri uomini. La sofferenza che trae origine dall’ultima fonte viene da noi avvertita come più dolorosa di ogni altra; propendiamo a considerarla in certo qual modo un ingrediente superfluo, quantunque possa essere non meno fatalmente inevitabile della sofferenza di provenienza diversa. Nessuna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibilità di soffrire, gli uomini vogliono ridurre la loro pretesa di felicità, così come, sotto l’influsso del mondo esterno, anche lo stesso principio di piacere si trasformò nel più modesto principio di realtà; nessuna meraviglia se ci riteniamo felici per il solo fatto di scampare all’infelicità, di sopportare la sofferenza, se, nel senso più generale, il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di procurarsi il piacere. La riflessione insegna che è possibile tentare di portare a termine questo compito per vie molto diverse; tutte queste vie sono state raccomandate dalle varie scuole della saggezza del vivere e percorse dagli uomini. Il soddisfacimento sfrenato di tutti i bisogni si propone come la condotta di vita più seducente del mondo; ciò significa però anteporre il godimento alla prudenza e, dopo non molto, implica il proprio castigo. Gli altri metodi intesi massimamente a evitare il dispiacere si diversificano secondo la fonte di dispiacere cui accordano prevalente attenzione. Esistono metodi radicali e metodi moderati, metodi unilaterali e metodi concernenti contemporaneamente più aspetti. La volontaria solitudine, il distanziarsi dagli altri sono il riparo più immediato contro il tormento che possono arrecarci le relazioni con gli altri uomini. La felicità conseguibile in tal modo è, ovviamente, quella della quiete. Contro il temuto mondo esterno non possiamo difenderci che stornandocene in qualche modo, se vogliamo portare a termine questo compito da soli. C’è naturalmente un altro modo migliore: con l’aiuto della tecnica, guidata dalla scienza, passare in quanto membri della comunità umana ad aggredire la natura e ad assoggettarla al volere umano. Si lavora allora con tutti per il bene di tutti”.

L’unica felicità che possiamo ottenere nella civiltà è al massimo la tranquillità, uno stato di quiete dal quale tuttavia rischiamo di sentirci minacciati, per la sua possibilità di introdurre la noia.

Il Disagio della civiltà è un testo del 1929 nel quale Freud condensa le sue più suggestive riflessioni sulle condizioni e gli effetti del vivere sociale, che avrebbe dovuto chiamarsi “L’infelicità della civiltà” (Das Unglück in der Kultur).

Il secondo capitolo è un vero e proprio catalogo o mappa di orientamento attraverso “le felicità”, un’ordinata rassegna delle ricette possibili in un sistema civile, che sempre prevedono la condanna senza appello della velleità contenuta nel “programma del principio del piacere”.

All’inizio del saggio Freud si chiede quale fosse l’originaria fisionomia della psiche prima che la civiltà imprimesse il suo segno e accogliendo l’ipotesi di un suo amico, Roman Rolland, immagina la condizione psichica della prima umanità immersa nell’esperienza religiosa di un “sentimento oceanico” di appartenenza e di comunione con la totalità, una sorta di felicità delle origini. Condizione da cui inizia con il prenderne le distanze, vedendo soprattutto minacciata l’autonomia e l’integrità dell’Io.

Si comprende subito dalle prime considerazioni che per Freud la Felicità non ha nulla a che vedere con questa condizione originaria in cui l’uno si sentirebbe unito con il tutto, bensì con la più preziosa, anche se faticosa, conquista dell’uomo civile che dal punto di vista intrapsichico possiamo invece identificare piuttosto con quel progressivo processo di separazione o meglio distinzione dal tutto che ha significato la nascita della coscienza dell’Io perché “nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto ad ogni altra cosa”.

Per questo motivo, il primo capitolo, termina con un verso del Tuffatore di Shiller: “Felice sia chi nella rosea luce respira”. Una precisa scelta di campo che volge lo sguardo alla poesia e alla bellezza, alla luminosità dell’arte e della cultura, le più alte conquiste della civiltà, nulla a che vedere con l’esperienza di una felicità intesa come immersione in una buia inconscietà primigenea. D’altronde Freud si muove all’interno del mito apollineo e luminoso della coscienza o almeno è questa la sua prospettiva epistemologica, portare l’Io la dove prima era l’Es.

Intossicazione

Tra i metodi più efficaci per alleviare il dolore e la sofferenza Freud contempla quelli che cercano di incidere direttamente sull’organismo stesso. Il modo più grossolano ma anche il più efficace per incidere sulla felicità è quello chimico: “Il più rozzo, ma anche il più efficace metodo per influire sull’organismo è quello chimico: l’intossicazione”. Alcune sostanze esterne introdotte nell’organismo producono sensazioni di piacere immediate, modificando le condizioni della vita emotiva in modo da renderci incapaci di recepire impulsi spiacevoli: “i due effetti non solo avvengono contemporaneamente, ma sembrano anche intimamente connessi”.

Anche nel nostro organismo si producono effetti simili senza che vengano introdotti stupefacenti come nelle condizioni psicopatologiche della mania. Allo stesso modo nella nostra vita psichica si hanno oscillazioni nella maggiore e minore felicità che si accompagna in una minore ricettività del piacere. I popoli hanno assegnato loro un posto ben preciso nella loro economia libidica: “Con l’aiuto dello “scacciapensieri” sappiamo dunque di poterci sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori”.

Se non ci fossero pesanti effetti collaterali uniti ad un grande dispendio di energia probabilmente la stragrande maggioranza degli individui avrebbe già da tempo preso questa via di liberazione dalla sofferenza. Del resto, molti pazienti che incontriamo nella clinica, in fondo si sono avvicinati alla sostanza come un tentativo di autoguarigione, come una modo di trovare un sollievo al dolore psichico, una via di fuga da un conflitto o da una tensione interna spesso insopportabile, per cercare energia, entusiasmo ed euforia la dove c’è vuoto, stasi e tristezza, coesione psichica la dove regna fragilità e frantumazione, relazione la dove c’è chiusura autistica. Accanto alle droghe tradizionali, come Freud aveva predetto, l’aiuto della tecnica, guidata dalla scienza ha dato poi una significativa risposta nel trattamento del dolore acuto e cronico.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stabilito una scala analgesica a tre gradini che utilizza diversi farmaci – antinfiammatori, oppioidi deboli, oppioidi forti, eventualmente associati a cortisonici, ansiolitici, antidepressivi – a seconda che si tratti di un dolore lieve, moderato o severo. Tuttavia se l’approccio al dolore fisico offre soluzioni decisive, il rapporto con il dolore psichico necessita un’altra via che come vedremo passa dalla sfera del significato ossia da una risposta personale alla sofferenza.

Rinuncia delle pulsioni

Come insegnano le pratiche ascetiche, uno dei modi più antichi per affrontare la sofferenza è la “limitazione o il soffocamento delle pulsioni”. Il successo di questi modi di vivere comporta però anche la rinuncia a ogni altra attività desiderante:

“Come il soddisfacimento pulsionale è fonte di felicità, così il mondo esterno è causa di grave sofferenza quando ci fa vivere in condizioni disagiate, quando ricusa di saziare i nostri bisogni. Possiamo dunque sperare di liberarci di parte della sofferenza agendo su tali moti pulsionali. Questo tipo di difesa dal dolore non riguarda più l’apparato sensitivo, in quanto tenta di esercitare un ferreo dominio sulle fonti interne dei bisogni. In forma estrema ciò accade allorché le pulsioni vengono mortificate, secondo quanto insegna la saggezza orientale e la pratica dello Yoga. Se la cosa riesce, ne deriva indubbiamente anche la rinuncia ad ogni altra attività (è la vita stessa a esser sacrificata), ossia, in modo diverso, si ottiene ancora una volta soltanto la felicità della quiete”.

Questo tipo di difesa dal dolore tuttavia comporta una innegabile riduzione delle possibilità di godimento perché “Il senso di felicità derivante dal soddisfacimento di un moto pulsionale selvaggio, che l’Io non controlla in alcun modo, è incomparabilmente più intenso di quello che si ottiene saziando una pulsione addomesticata”.

Freud conosce bene Arthur Schopenhauer che si era occupato a fondo del pensiero orientale. Egli riteneva che uno stile di vita che nega i desideri, simile agli insegnamenti ascetici dei Vedanta e delle Upanishad dell’induismo, del Buddhismo delle origini, e dei Padri della Chiesa del primo Cristianesimo, nonché una morale della compassione, è quindi l’unico vero modo, anche se difficile per lo stesso filosofo, per raggiungere la liberazione definitiva e quindi la felicità.

Nella visione pessimistica di Schopenhauer “la vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra il dolore e la noia, passando per l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia”.

La sublimazione attraverso l’arte e la scienza

La duttilità del nostro sistema psichico, utilizza un’altra tecnica di difesa dalla sofferenza, mediante gli spostamenti dell’energia libidica su mete pulsioni che non subiscano la frustrazione del mondo esterno. Il destino allora non può nuocere più di tanto:

“Simili soddisfacimenti – ad esempio la gioia dell’artista nel creare, nel dare corpo ai frutti della sua fantasia , o quella dello scienziato nel risolvere i problemi e riconoscere la verità hanno una qualità particolare […]”.

Per quanto fini e raffinati, anche in questo caso, tali meccanismi non scuotono la nostra corporeità. La loro intensità se paragonata a quella che si ottiene con mezzi grezzi e primari, è evidentemente attutita. Un metodo accessibile a pochi, non utilizzabile sistematicamente e che non garantisce nemmeno a loro la piena sublimazione della sofferenza. Qui la relazione con la realtà è già più allentata, perché il soddisfacimento è frutto di illusioni, ma tale distacco non produce turbamento.

Il godimento dell’opera d’arte

In cima ai godimenti fantastici per Freud c’è il godimento di opere d’arte, reso accessibile anche a chi non è creatore, attraverso la mediazione dell’artista. Chi è sensibile all’influsso dell’arte, non stimerà mai abbastanza la blanda narcosi 59 in cui si colloca l’arte che può produrre solo una momentanea evasione dagli affanni dell’esistenza perché non è abbastanza forte per fare dimenticare la miseria reale. Forse possiamo rintracciare le origini di questa strategia nel tema filosofico di Nietzsche affrontato nel La nascita della tragedia. La tesi di Nietzsche è che nella tragedia greca, troviamo il modo in cui l’essere umano ha saputo risolvere la sua natura istintiva e pulsionale, nella bellezza.

Qui possiamo intendere la bellezza delle forme e dei gesti umani, delle creazioni artistiche, del paesaggio come delle creazioni scientifiche tutte alla stessa stregua di compensazioni: “Il godimento della bellezza si distingue per un suo modo di sentire particolare, leggermente inebriante”.

L’arte diviene fonte di sollievo, momentanea evasione dagli affanni dell’esistenza, consolazione ma non è abbastanza forte per far dimenticare all’uomo la miseria del reale.

Il distacco eremitico dalla realtà

Più energico e drastico è quel procedimento che identifica nella realtà l’unico nemico, considerandola come ogni fonte di sofferenza, con la quale è impossibile vivere e con la quale si vuole stroncare ogni rapporto se si vuole essere felici.

L’eremita volta le spalle a questo mondo e non vuole averci niente a che fare. Può addirittura anche spingersi oltre per tentare di trasformarlo, crearne uno alternativo, un mondo in cui tratti insopportabili siano stati cancellati e sostituito con quelli conformi ai nostri desideri:

“L’eremita volta le spalle a questo mondo, non vuole avere nulla a che spartire con esso. Ma si può fare di più, si può voler trasformare il mondo, costruendo al suo posto un mondo diverso in cui le caratteristiche più intollerabili risultino eliminate e sostituite da altre caratteristiche consone ai propri desideri. Chi in una rivolta disperata imbocca tale cammino verso la felicità, non ottiene di regola nulla; la realtà si dimostra per lui troppo forte ed egli diventa un pazzo, che non riesce a realizzare il suo folle desiderio e non trova perlopiù nessuno disposto a dargli una mano”.

Per Freud può succedere che come avviene per il paranoico, ciascuno di noi può correggere il lato del mondo che gli risulta insopportabile registrando questo delirio nella realtà. E in questo anche un gran numero di persone possono seguirlo in questo tentativo di garantirsi la felicità per proteggersi dalle sofferenze attraverso questa trasformazione delirante della realtà.

Amare ed essere amati

Un atteggiamento per Freud familiare a tutti, quello di cercare la felicità “ove per la prima volta l’abbiamo incontrata”; nell’amore sessuale che ci ha procurato la più intensa esperienza di una travolgente sensazione di piacere, “fornendoci il modello di quel che andiamo cercando quando inseguiamo la felicità”.

Il lato debole di questa tecnica di vita è del tutto evidente altrimenti nessuno l’avrebbe mai abbandonata: “Mai come quando amiamo prestiamo il fianco alla sofferenza, mai come quando abbiamo perduto l’oggetto amato o il suo amore siamo così disperatamente infelici”.

Per concludere Freud sostiene che per quanto il programma di felicità impostaci dal principio del piacere non sia realizzabile, non gli è lecito tuttavia rinunciare agli sforzi di portarlo comunque a compimento. Non esiste un consiglio universalmente valido in quanto “ogni individuo deve trovare da sé la maniera particolare in cui può essere felice”.

L’uomo prevalentemente erotico anteporrà a tutto le relazioni emotive con gli altri, quello narcisista, più portato all’autosufficienza, cercherà soddisfacimenti essenziali nei suoi processi psichici interni e infine quello d’azione non desisterà dal mondo sul quale sarà orientato ad esprimere la sua forza.

Un atteggiamento improntato ad una certa saggezza nell’affrontare la vita ci induce a non aspettarsi tutto il soddisfacimento da un’unica aspirazione, così come il commerciante saggio non investirà solo in un unico ramo. Il successo dipenderà molto, per Freud, anche dalla costituzione psichica e dal suo modo di adattarsi all’ambiente. Chi per esempio ha una costituzione libidica sfavorevole e non ha correttamente eseguito quella trasformazione che è indispensabile, faticherà ad ottenere la felicità.

Come ultima soluzione che promette all’individuo soddisfacimenti sostitutivi, si offre la fuga nella malattia nevrotica che si solito si sceglie in gioventù, mentre nell’età più adulta, quando si vedono delusi i propri sforzi di ottenere la felicità, si intraprende di solito la ricerca del piacere attraverso l’intossicazione cronica oppure il disperato tentativo di rivolta che è la psicosi.

Gianluca Minella